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Che cosa significa TapasIl termine Tapas (तपस्) deriva dal sanscrito, contiene la radice verbale tap, che significa “scaldare”, “ardere”, “risplendere”, fa parte dei Niyama della filosofia Yoga e rappresenta l’ardore ascetico, il calore generato dalla dedizione e dall'autodisciplina, una forza capace di purificare e potenziare l’individuo attraverso il sacrificio e l’autocontrollo, il fuoco spirituale che sviluppa forza di volontà e richiama il concetto di energia trasformativa e di crescita personale. Nello Yoga tapas rappresenta la fiamma interiore che consuma le impurità, rafforzando il corpo e la mente, il motore che spinge i progressi del praticante, il quale attraverso la disciplina e l’ardore supera la pigrizia e resiste alle distrazioni che impediscono la sua evoluzione. Tapas è la capacità di migliorarsi, la linfa vitale che nutre la pratica fisica e teorica dello yogin. Oggi tapas viene reinterpretato non solo come ascesi, ma come un principio applicabile nella vita quotidiana per sviluppare determinazione e resilienza, essenziali per il raggiungimento dei propri obiettivi. Dalle origini ai nostri giorniQuesto concetto fa parte della tradizione spirituale indiana, i primi accenni risalgono all'epoca vedica (2000 a.C. al 500 a.C.): nel Rig Veda tapas è la scintilla primordiale che dà origine all’universo, un principio creativo che rappresenta la capacità della realtà di mutare e generare nuova vita; nei Veda successivi, come nell’Atharva Veda, il termine è legato ai ṛṣi, i saggi che attraverso pratiche ascetiche potevano acquisire poteri e conoscenza, mentre nelle Upanishad viene inteso anche come strumento per trascendere l’umana condizione e giungere alla realizzazione del sé e a mokṣa, la liberazione. Anhe il Mahābhārata narra storie di saggi che, grazie alla pratica, riescono a ottenere siddhi (poteri straordinari), tuttavia, mette in guardia dai pericoli dell’ascetismo estremo, suggerendo che l'ardore deve essere accompagnato da saggezza e moderazione. È sotto l’influenza delle scuole ascetiche e yogiche che tapas passa dall’essere una forza generativa a un mezzo per la purificazione e la trasformazione dell'individuo. Questo principio è inserito tra i Niyama nello Yoga Sutra di Patañjali (II sec. a.C.-IV sec. d.C.) e si riferisce al fuoco ascetico che forgia il corpo e la mente dello yogin nel suo cammino verso la liberazione. Nelle tradizioni Yoga successive tapas diviene più specifico e associato ai rituali e alle tecniche di pranayama, asana e meditazione, allo sforzo per mantenere Sādhanā, l'insieme di pratiche volte alla crescita spirituale. I testi medievali, come lo Haṭha Yoga Pradīpikā, enfatizzano l’idea che attraverso l’autodisciplina e la purificazione del corpo si possa raggiungere un livello più elevato di consapevolezza. Il concetto di tapas si diffuse progressivamente in oriente, coinvolgendo altre filosofie e religioni, che ne svilupparono interpretazioni proprie. Nella tradizione jainista, esso assume una dimensione integrale, dove i tapasvin aderiscono a un ascetismo estremo per eliminare il karma e accelerare il cammino verso la liberazione attraverso pratiche molto rigorose, come il digiuno o l’isolamento prolungato. Nel Buddhismo è il Buddha stesso a sperimentare le pratiche ascetiche, esperienze che lo aiuteranno a maturare il suo pensiero di armonia tra rigore e moderazione. Parallelamente anche nel monachesimo occidentale si svilupparono forme ascetismo severe che arrivavano a mortificare il corpo e la mente del praticante. Oggi tapas trova applicazione nella vita quotidiana come sinonimo di autodisciplina equilibrata, non è possibile, infatti, praticare tapas senza tenere in considerazione brahmacharya (la moderazione) e ahimsa (la non violenza), Yama e Niyama necessitano, infatti, di un interscambio continuo e simbiotico nell’evoluzione del praticante. Il SutraQui sotto è riportato il passo che riguarda tapas tratto dallo Yoga Sūtra di Patanjali:
कायेन्द्रियसिद्धिरशुद्धिक्षयात्तपसः
2.43 Kāyendriya siddhiḥ aśuddhi kṣayāt tapasaḥ TraduzioneKāya: corpo
Indriya: organi di senso Siddhiḥ: perfezione Aśuddhi: impurità, opacità Kṣayāt: distruzione Tapasaḥ: attraverso l'ardore Dall'ardore [nella disciplina], in virtù della conseguente cessazione delle opacità, si scorge la [possibilità di] perfezione fisico sensoriale. [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] SignificatoAttraverso l'ardore ascetico si purifica il corpo e la mente e si raggiunge la piena padronanza del corpo e dei sensi, cioè la disciplina aiuta a migliorarsi, avvicinando alla perfezione. Tapas nella vitaIn un’epoca in cui si insegue la gratificazione immediata a scapito della perseveranza, riscoprire il valore di tapas può rappresentare una risorsa per vivere in maniera più intensa e realizzata. Il concetto di ardore è ormai slegato dai dettami dell’ascetismo radicale e, se applicato nella quotidianità, può dare un contributo valido per l’evoluzione interiore e il perseguimento dei propri obiettivi. Tapas non è solo disciplina fisica, è anche e soprattutto un atteggiamento mentale e comportamentale che aiuta a sviluppare costanza, determinazione e resistenza alle difficoltà, ad affrontare le sfide con coraggio, senza abbattersi di fronte agli ostacoli e rinunciando a stratagemmi facili ma inconcludenti. Questo principio ha a che fare con il raggiungimento del successo, quello reale e duraturo, che ci fa sentire appagati e contenti (santosa) nella vita di tutti i giorni. Tapas dà buoni risultati nel campo della crescita professionale e personale in quanto sviluppa la capacità di mantenere l'impegno nel lungo termine, anche quando le circostanze non sono favorevoli. Concentrarsi attivamente sulle proprie aspirazioni, rinunciando alle distrazioni, è l’atto di volontà che più avvicina ai propri obiettivi: che si tratti di studio, lavoro, di un intento o della crescita spirituale, riuscire a perseverare a dispetto delle avversità è la formula del successo. Tuttavia, occorre mantenere l’armonia ed evitare un eccesso di tapas: la disciplina non deve diventare fanatismo o rigidità, ma deve rimanere sempre equilibrata e funzionale alla crescita. In quest’ottica occorre porsi degli obbiettivi fattibili e nutrirli con pazienza e dedizione, imparare a vedere le difficoltà come un'opportunità di crescita, trasformando la fatica in forza, gli ostacoli in apprendimento e le paure in sfide per superare i propri limiti. Chiediti con onestà (satya) cosa vuoi raggiungere davvero e perché vuoi farlo, analizza tutti i benefici che potresti ottenere, ma anche gli svantaggi, una visione chiara e consapevole costituirà la tua personale mappa per imboccare il percorso giusto. Ciò vuol dire coltivare tenacia e costanza, non farsi abbattere dalle cadute, ma rialzarsi e ricominciare, mettendo da parte se necessario i "sentimenti zavorra", come l’eccessivo orgoglio o il timore, che impediscono di avanzare. Tapas vuol dire mantenere viva la fiamma dell’amore per ciò che si sta ricercando. Per procedere con fermezza è importante costruire una tabella di marcia che ponga una serie di obiettivi graduali, che sono senza dubbio più facili da rispettare e richiedono meno sforzo. La meta si raggiunge con maggiore sicurezza compiendo un passo dopo l’altro, meglio evitare le scorciatoie, fare un salto è più rapido ma sarebbe difficile atterrare nel punto giusto e ci si potrebbe far male. Concedersi il giusto tempo permette di focalizzarsi sui successi e non sui fallimenti, che rimarranno confinati ad eventi di portata limitata, sempre contornati da una serie di vittorie parziali ma tangibili. Porsi piccoli traguardi a breve scadenza permetterà di raggiungere grandi risultati nel lungo termine. A tal fine può essere utile sperimentare i principi dello Slow living che supportano uno stile di vita dal ritmo lento. Tapas non è una pratica ostinata e sterile ma un principio trasformativo per la propria evoluzione fisica, psichica e spirituale, applicarlo nella vita quotidiana si rivela efficace per migliorarsi e perseguire uno stile di vita sano: scelte come l’alimentazione equilibrata, l’esercizio fisico regolare o l'introduzione di una qualsivoglia buona abitudine, richiedono disciplina e forza di volontà. Chi sperimenta tapas nella cura del corpo e della mente sa bene che la salute non è solo il risultato di azioni sporadiche, ma di un impegno costante e durevole nel tempo. Creare un metodo, fatto di piccole routine che rendano le proprie azioni un’abitudine piacevole, aiuterà a mantenere la continuità necessaria per portare a termine i propri intenti. Allo stesso modo, tapas può essere applicato nella sfera emotiva per imparare a gestire le emozioni e le situazioni stressanti senza perdere il focus e la calma. Coltivare la pazienza e l’autocontrollo permette di vivere relazioni più equilibrate e di ritrovare l'armonia, favorisce lo sviluppo di una comunicazione più efficace e consapevole, che evita le reazioni impulsive o distruttive, aiutando a rispondere con pacatezza e lucidità, anziché in modo irrazionale e aggressivo. Lo Yoga con le sue pratiche per il benessere psicofisico è uno strumento perfetto per sviluppare tapas, non solo aiuta a forgiare il corpo, ma anche ad allenare l’autodisciplina e a non perdere la motivazione. Anche l’impegno sociale rappresenta una forma di tapas elevata e costruttiva, lottare per le proprie idee, per una causa etica, fare volontariato, nobilita lo spirito attraverso attività concrete che presuppongono perseveranza ed empatia e che possono portare a risultati importanti per sé e per la comunità. Leggi anche Che cos'è Mahashivaratri, dove e quando si celebraMaha Shivaratri, Mahāśivarātri o semplicemente Shivaratri, significa letteralmente "la grande notte di Shiva e rappresenta la più importante festa dedicata al dio Shiva, nonchè una delle più sacre dell'induismo. Questa giornata ricorre ogni anno nel mese di Phalguna durante la notte di luna nuova (tra febbraio e marzo del calendario gregoriano) ed è celebrata in tutta l'India e in altri paesi con grosse comunità induiste, come il Nepal e il Pakistan. Maha Shivaratri rappresenta un'occasione di festa e di rinnovamento spirituale, un momento di profonda riflessione e connessione alla natura e al divino. Le origini e i miti del Maha ShivaratriLe origini di questa ricorrenza affondano nelle tradizioni e nelle pratiche religiose dell'India antica, riflettendo la complessa interazione tra elementi storici, mitologici e rituali. Le radici di Maha Shivaratri emergono già intorno al V secolo a.C. e nel corso dei millenni vanno sempre più ad intrecciarsi con la fitta selva di leggende e cerimoniali, sino ad arrivare ai nostri giorni, consegnandoci una consuetudine ricca e variegata. La festività diviene uno strumento formativo: attraverso la venerazione di Shiva, si cerca di comprendere il ciclo eterno di creazione e distruzione che governa l'universo, al fine di armonizzarsi con esso. Uno dei miti più diffusi associati a Maha Shivaratri riguarda la danza cosmica di Shiva. Si narra che nella notte di luna nuova di Phalguna Shiva eseguì la sua danza divina, conosciuta come Tandava, che rappresenta la natura con i suoi cicli di nascita, crescita e morte, l'eterno movimento dell'universo e la continua trasformazione dell'energia. Si narra, inoltre, che in questo giorno Shiva, chiamato anche con l'appellativo Nilakantha, abbia ingoiato il veleno Halāhala prodotto durante Samudra Manthana, l'epica lotta tra gli dei e gli asura narrata nel Vishnu Purana. Il veleno venne trattenuto dal dio nella gola, che per questo divenne blu, tale atto è metafora della capacità di controllare gli impulsi della mente e del corpo durante la pratica spirituale. Secondo la tradizione Maha Shivaratri è anche l'occasione per commemorare il matrimonio tra Shiva e Parvati, la coppia sacra in cui il dio rappresenta la coscienza pura che si fonde con l'energia vitale di cui la sua consorte ne è simbolo. Questa unione divina è vista come l'equilibrio perfetto tra le forze maschili e femminili, essenziali per l'armonia degli individui e dell'universo. Shiva, benevolo e distruttoreShiva è una divinità poliedrica, tra le più complesse e amate del pantheon induista, egli incarna la molteplicità degli aspetti della realtà e rappresenta la forza che dissolve l'universo, permettendo la sua rigenerazione, per questo è conosciuto come il "Distruttore" all'interno della Trimurti, la triade divina composta da Brahma, Vishnu e Shiva, simbolo del ciclo continuo di creazione, preservazione e distruzione che sottende la natura di tutte le cose. Nonostante questi connotati crudi e potenti, Shiva è una divinità benevola, amica della natura e dedita alla contemplazione, infatti il suo veicolo è Nandi, un toro bianco simbolo di forza, purezza e rettitudine. Shiva rappresenta l'asceta supremo e colui che ha rivelato lo Yoga al mondo, per questo è spesso raffigurato assorto in profonda meditazione. Shiva è il danzatore cosmico, la distruzione che egli apporta, infatti, ha una valenza positiva, trattandosi di un processo necessario per il rinnovamento e la trasformazione in perfetta armonia con l'energia dell'universo in continuo movimento. Nell'iconografia classica Shiva è raffigurato con il corpo lucente cosparso di cenere e la fronte segnata dal Tripuṇḍra, tre righe orizzontali che ricordano la transitorietà della vita e richiamano le principali triadi della tradizione indù, da qui emerge il terzo occhio, come manifestazione di saggezza e onniscenza. Sul suo capo svetta una mezza luna, indice del dominio sul tempo, mentre dai folti capelli sgorga il Gange, simbolo di purificazione, più in basso il serpente rappresenta l'energia divina e creatrice, mentre il tridente è espressione della Trimurti. Culto e tradizioniI festeggiamenti della grande notte di Shiva sono caratterizzati da una serie di rituali che variano a seconda delle regioni e delle tradizioni locali, ma che condividono elementi comuni. La festa è celebrata attraverso la recitazione di preghiere, atti di rinuncia e meditazioni sui temi e sulle qualità legate a Shiva. Nella società contemporanea, pur mantenendo le pratiche tradizionali, le celebrazioni possono includere parate folcloristiche, concerti di musica devozionale e rappresentazioni che narrano le storie della divinità, rendendo Maha Shivaratri non solo un rito religioso ma anche un momento festoso, pieno di colori e di gioia. I devoti più ferventi restano svegli tutta la notte, mentre altri visitano i templi dedicati a Shiva, dove si venera il lingam, il simbolo fallico che rappresenta la divinità, a cui si offrono acqua, latte, miele, fiori e foglie di Bel, considerate sacre al dio. Si crede che le offerta alle icone e al lingam, siano un'occasione per rimettersi dai peccati e ricominciare il proprio percorso di vita in maniera virtuosa. Inoltre, procedere con il pellegrinaggio per il Kailasha, un monte sacro a Shiva, favorirebbe il cammino verso la liberazione. Molti devoti intraprendono viaggi verso i principali luoghi di devozione, come i pellegrinaggi ai Jyotirlinga, i 12 templi dedicati al dio sparsi in tutta l'India. La veglia notturna, detta Jāgaraṇa, è dedicata alla meditazione, alla recitazione dell'inno "Shiva Chalisa", di mantra come "Om Namah Shivaya" o "Maha Mrityunjaya Mantra", e alla partecipazione a cerimonie di adorazione. La veglia è generalmente divisa in quattro parti, ad ogni quarto viene celebrata una Puja specifica, in cui vengono rispettivamente offerti latte, cagliata, burro chiarificato, ed infine, miele. La pratica del digiuno è comune, variando da quello parziale con consumo limitato a frutta e latte, al digiuno completo. I devoti più ferventi trascorrono tutta la notte svegli e si astengono dal cibo e dall'acqua per l'intera giornata. Si ritiene che durante il Maha Shivaratri le pratiche yoga e i mantra aumentino notevolmente il loro potere. Secondo la tradizione, infatti, in questo giorno la disposizione dei pianeti è una delle migliori per elevare la propria energia spirituale e per questo, oltre alle pratiche, si compiono offerte e voti al fine di ottenere una proficua evoluzione nell'esercizio dello yoga e della meditazione verso la liberazione. Significato dei ritiI rituali che si compiono durante questa festa non sono solo atti di devozione, ma servono anche come strumenti per la crescita spirituale, mirando a purificare l'anima e ad avvicinarsi al divino. Nella veglia l'arrivo della luce che dissipa l'oscurità della notte simboleggia la vittoria sull'ignoranza che dona la conoscenza, così come il devoto che vince il sonno in attesa del sorgere del sole. Anche la pratica del digiuno non è una penitenza fine a se stessa, ma rappresenta l'autodisciplina, il dominio su corpo e mente, quindi, sui desideri materiali, causa di sofferenza e insoddisfazione. Le danze dedicate a Shiva simboleggiano, invece, il perpetuo movimento dell'energia e aiutano a riflettere sulla transitorietà della vita e sui significati dei racconti della mitologia induista portati in scena. Le pratiche meditative, infine, inducono il praticante a sperimentare il senso di unione e a sviluppare un profondo stato di connessione con la natura e l'universo. Attraverso queste atti rituali, i devoti cercano di ottenere la grazia di Shiva e di avanzare nel percorso verso la liberazione spirituale. I luoghi e gli eventi del Maha ShivaratriIn India diverse località sono rinomate per celebrazioni di Maha Shivaratri, le più attive sono certamente quelle dove è più forte il culto del dio Shiva e le città a grande vocazione spirituale. I luoghi in cui sorgono i dodici jyotirlinga sono sicuramente tra i più apprezzati dai devoti per celebrare lo Shivaratri, ognuno di questi templi prende il nome da una manifestazione di Shiva: qui la rappresentazione principale è la stambha, una colonna senza inizio né fine, simbolo della natura infinita di Shiva. Un centro di intensa devozione è Varanasi, una delle città più sacre per gli induisti, ricca di templi dedicati a Shiva e sede del Kashi Vishwanath, uno dei dodici jyotirlinga. Nel Tamil Nadu Maha Shivaratri viene celebrato con grande sfarzo nel tempio di Annamalaiyar presso Tiruvannamalai. La tradizione prevede che sia un momento propizio per effettuare il Girivalam o Giri Pradakshina, una camminata a piedi nudi di 14 chilometri attorno ad una collina sulla cui cima viene accesa un'enorme lampada al calar del sole. Durante il cammino si incontrano otto piccoli santuari, gli Ashta Lingam, associati ai 12 segni lunari, che si snodano lungo la circonferenza della collina. Nel distretto di Kanyakumari nel giorno di Shivaratri viene intrapresa Sivalaya Ottam, una maratona rituale che coinvolge i dodici santuari di Shiva che sorgono nella zona. L'evento inizia a Thirumalai e attraversa i successivi dieci templi prima di concludersi a Thirunattalam. I partecipanti, dopo un digiuno di una settimana e un bagno nel fiume, indossano vesti arancioni e iniziano il percorso portando con sé un ventaglio di foglie di palma e cantando mantra, ad ogni tappa riceveranno le ceneri sacre del tempio visitato. Il Maha Shivaratri è legato ad un particolare evento detto Natyanjali, letteralmente "adorazione attraverso la danza", si tratta di festival ed eventi dove gli artisti confluiscono nei principali luoghi di devozione per danzare in onore della divinità. Diverse città accolgono questa tradizione, tra cui Konark, Khajuraho, Pattadakal, Modhera e Chidambaram, famoso per la sua scultura raffigurante tutti i mudra di danza nell'antico testo indù di arti performative chiamato Natya Shastra. A Haridwar, i devoti si radunano sulle rive del Gange per partecipare a rituali e cerimonie. Il tempio di Bhavnath Mahadev a Junagadh, nel Gujarat, ospita una fiera annuale che attira migliaia di pellegrini. Altri luoghi in cui la festa è molto sentita sono il tempio di Mahakaleshwar a Ujjain e il tempio di Lingaraj a Bhubaneswar, dove le celebrazioni sono particolarmente grandiose, attraendo visitatori da tutto il paese. Leggi anche Che cosa significa SantosaSantosa o Santosha (in sanscrito: संतोष, saṃtoṣa) è il secondo dei cinque niyama, i precetti etici personali descritti nello Yoga Sūtra di Patanjali, un testo fondamentale per il sistema filosofico dello Yoga. Il termine deriva dalla radice sanscrita saṃ- (insieme, pieno, completo) e tuṣ (accontentarsi, essere soddisfatto) e può essere tradotto semplicemente come appagamento o contententezza. Tuttavia, questa parola non si limita a indicare una semplice emozione momentanea o uno stato passeggero dell’animo, piuttosto rappresenta una condizione interiore stabile, il risultato di un equilibrio emotivo e psicologico conquistato giorno per giorno, per questo Santosa può essere definita come l’arte della felicità dello Yoga. Si tratta di uno dei principi più affascinanti della filosofia yogica, preso in prestito e poi sviluppato da molte altre tradizioni, che invita a godere delle piccole cose e a sviluppare la capacità di accogliere le esperienze della vita, coltivando una gratitudine profonda e sincera. Santosa è quindi una pratica attiva che trascende l'accettazione passiva delle circostanze, invitando alla consapevolezza e al riconoscimento del valore intrinseco di ciò che ci circonda e di quello che già si possiede. In un contesto più ampio, il concetto di contentezza si collega a valori come la semplicità, l’umiltà e il rispetto per il momento presente, qualità essenziali per raggiungere una condizione di pace interiore e realizzazione personale autentica e duratura. Dalle origini ai nostri giorniLe radici di Santosa risalgono nel periodo tra 1500 e 500 a.C. quando emerge nel contesto della filosofia vedica e successivamente nello Yoga. Le scritture vediche sottolineano spesso l’importanza del distacco dai desideri materiali (vairagya) e della contentezza come qualità necessaria per avvicinarsi alla verità (satya) e alla liberazione. Nel sistema filosofico del Samkhya, una delle sei scuole ortodosse dell’induismo da cui lo Yoga deriva alcune delle sue basi teoriche, Santosa rappresenta una virtù essenziale per superare le distrazioni dell’ego (ahamkara) e rimanere focalizzati sull’essenza dell’essere (purusha). Successivamente, nei testi post-vedici come le Upanishad (800-300 a.C.), l’idea di Santosa è collegata alla rinuncia interiore (sannyasa) e alla scoperta della felicità attraverso la connessione con il Sé interiore. L’idea di contentezza come pratica spirituale non è esclusiva della tradizione yogica, infatti, in molte culture e tradizioni filosofiche si ritrovano concetti analoghi, ad esempio nell’antica Grecia, il termine ataraxia descriveva uno stato di imperturbabile serenità e appagamento simile a Santosa, mentre nella tradizione buddhista, il concetto di santutthi si riferisce a una condizione mentale libera dall’avidità e dai desideri materiali che dona la vera soddisfazione, o ancora nella cultura taoista, l’idea di vivere in armonia con il Tao e di accettare il flusso della vita richiama la pratica yogica dell'accontentarsi. Santosa ha continuato ad influenzare filosofie antiche e contemporanee lo troviamo con eccezionali affinità tra i pilastri dell’Ikigai e nell’approccio moderno delle filosofie ecologiste e sotenibili. Con l’espansione del pensiero yogico durante l’era medievale, testi come la Hatha Yoga Pradipika (XV secolo) e la Gheranda Samhita (XVII secolo) hanno incluso Santosa come parte integrante delle pratiche per il raggiungimento dell’equilibrio fisico e mentale. Questo ha posto le fondamenta per l’evoluzione moderna di questo principio, che si è scostato dalla mera pratica spirituale per ritagliarsi un ruolo di spicco nel campo del benessere psicologico. Santosha oggi viene reinterpretato indipendentemente dalle tradizioni religiose in chiave laica e funzionale, nelle pratiche di mindfulness, crescita personale e sempre più spesso integrata negli approcci terapeutici che pongono l’accento sulla consapevolezza e sul raggiungimento del benessere psicologico. Il SutraQui sotto è riportato il passo che riguarda Santoṣā tratto dallo Yoga Sūtra di Patanjali: संतोषादनुत्तमः सुखलाभः 2.42 santoṣād anuttamaḥ sukha-lābhaḥ Traduzione santoṣāt: accontentarsi, appagamento anuttamaḥ: supremo, insuperabile sukha: felicità, benessere, agio lābhaḥ: acquisizione, guadagno Dall’appagamento si palesa agio (sukha) senza pari. [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Dall’accontentarsi deriva l’acquisizione di una felicità suprema, duratura e profonda, il vero appagamento non deriva da fattori esterni, ma da un atteggiamento interiore di accettazione e gratitudine. Santosa nella vitaNel mondo contemporaneo, il concetto di Santosha può offrire una via per trovare gioia e soddisfazione nella vita quotidiana, percorribile da chiunque lo voglia, la strada verso una felicità stabile e profonda. Le applicazioni di questo principio sono variegate, insegnano a dare il giusto valore alle cose, alle persone e agli eventi e a coltivare un approccio consapevole verso l’esistenza e la realtà che ci circonda. Santosa, infatti, invita ad accontentarsi, a non lottare costantemente contro le circostanze esterne o per ottenere di più, ma ci invita ad accogliere gli eventi e a sviluppare una resilienza emotiva che permetta di accettare le situazioni così come sono. Questo può apparire come un atteggiamento pigro e rinunciatario, tuttavia non si tratta di un accettazione passiva, bensì di una scelta libera e consapevole che non implica apatia e sottomissione, ma esplica la capacità di vivere senza essere sopraffatti da aspettative irrealistiche e frustranti. Applicare Santosa si rivela una sfida nel contesto della vita moderna, caratterizzata da ritmi accelerati e da un consumismo pervasivo, ma è anche un'opportunità per ripensare il nostro modo di vivere per raggiungere uno stato di maggiore pienezza e appagamento. Il bene e il male rappresentano due facce della stessa medaglia, ogni giorno entriamo in contatto con questi due opposti, pertanto risulta difficile nutrire un sentimento positivo a lungo senza che venga compromesso. Santosha a tal scopo invita ad allenare il sorriso interiore, a soffermarsi per scoprire l’unicità in ogni cosa, ad andare in profondità sino all’essenza, dove anche la dualità risulta più sfumata. Ciò non significa rifiutare gli aspetti negativi della vita, semmai accogliere la complessità della realtà nella sua interezza per trarne nuova linfa e consapevolezza e quando possibile cogliere nelle avversità opportunità di crescita. Sebbene sembri un traguardo irraggiungibile la contentezza non è un bene di lusso, possiamo trovarla nel verde di una foglia, nel tepore di un raggio di sole, nello sguardo selvaggio di un animale, nella meraviglia di un bambino, nella saggezza di una ruga, in un gesto gentile, in un sorriso casuale, in un sapore sorprendente o in un odore familiare, basta saperla scovare. La felicità, infatti, non è dovuta né piove dall’alto, non richiede nemmeno grandi affanni o strabilianti conquiste né risiede nel successo, ma è la volontà di guardare oltre, una scelta consapevole che si fa giorno per giorno, in ogni singolo istante. Coltivare il momento presente è un antidoto alla frenesia moderna, che riporta l’attenzione sull’essenziale e sull’istante che stiamo vivendo. Spesso, infatti, per ricercare la felicità ci rifugiamo nei ricordi o al contrario restiamo sospesi in attesa che qualcosa di bello accada più in là, divenendo ciechi nei confronti di ciò che sta già fiorendo e perdendoci le occasioni migliori, ignari dei piccoli doni sparsi lungo il nostro cammino. Rinunciando a vivere nel presente rinunciamo di fatto a vivere. Santosha si radica nell’idea che la vera felicità non si trovi nel passato o nel futuro, ma nel qui e ora, ovvero nella nostra capacità di accogliere il presente con gratitudine e serenità, liberandoci da quello stato di perenne insoddisfazione che accompagna la nostra esistenza e aiutandoci a percepire la felicità istante per istante. Fare le cose con presenza mentale prendendoci il tempo necessario ci permetterà di vivere il momento con maggiore intensità e di dare il giusto valore alle cose. Possiamo applicare questo principio portando amore e intenzionalità nelle azioni semplici, cucinare, leggere, disegnare, gustare una tazza di tè, fare una passeggiata, svolgere un lavoro, assumeranno una prospettiva diversa e più profonda. La pratica della gratitudine è uno dei modi più genuini per realizzare Santosha, uno strumento semplice e alla portata di tutti che aiuta a riconoscere e apprezzare le piccole gioie quotidiane, riducendo il focus su ciò che manca e portandolo verso ciò che riempie la nostra esistenza. Studi psicologici confermano che la gratitudine può migliorare significativamente il benessere mentale, riducendo ansia e depressione, la ricerca condotta dal Greater Good Science Center presso l'Università della California, Berkeley, ha dimostrato che le persone che coltivano regolarmente la gratitudine tendono a essere più felici, meno stressate e più resilienti di fronte alle difficoltà. Un metodo semplice per sviluppare la contentezza è la stesura di un diario della gratitudine, in cui annotare quotidianamente le piccole cose belle che incrociamo nell’arco della nostra giornata: mettere nero su bianco oggetti, gesti, parole, incontri, eventi e condizioni che ci regalano positività aiuta a renderci conto di quanto elementi apparentemente insignificanti siano sorprendentemente in grado di arricchire la nostra vita. Allenare la gratitudine è un ottimo esercizio per contrastare la tendenza naturale della mente a focalizzarsi sulle difficoltà e concentrarsi, invece, sugli aspetti positivi, e accrescere, così, la consapevolezza, la compassione e il livello di soddisfazione. Santosa promuove l’ascolto, l’attitudine ad osservare senza giudicare, esenti dai pregiudizi o dal desiderio di controllo. Riconoscere il lato bello nelle persone è un atteggiamento che conduce a una maggiore empatia verso se stessi e verso il prossimo e che a lungo andare accresce la capacità di rapportarsi agli altri in maniera sana e positiva, favorendo uno stato di serenità emotiva. Questo non vuol dire accettare atteggiamenti negativi o sottomettersi al volere altrui, semmai discernere con chiarezza tutta la gamma dell’espressività umana, elaborare un senso critico costruttivo, prendere decisioni responsabili, al fine di creare relazioni interpersonali più autentiche e armoniose. In quest’ottica è possibile sviluppare Santosha anche in ambito professionale, ciò significa imparare a scorgere le potenzialità nascoste nei compiti che stiamo svolgendo, effettuare scelte consapevoli in linea con i propri valori, accogliere le responsabilità con più fiducia, focalizzandosi sui risvolti positivi e sulla crescita personale, cosicché la soddisfazione intrinseca per il lavoro svolto diventa di fatto un motore più potente delle ricompense materiali, permettendoci di godere appieno degli obiettivi raggiunti, evitando il burnout e aumentando l’autostima. Santosa ci invita ad essere contenti di ciò che si è non per ciò che si ha. Secondo la Harvard Business Review le persone che scelgono di semplificare la propria vita riferiscono una maggiore senso di soddisfazione e di controllo sul proprio destino, Santosa si radica proprio nell’idea che la vera felicità non è il risultato della quantità di cose che facciamo o possediamo, incoraggiando un'esistenza piena, dove il valore non risiede nell'accumulo di beni o nella soddisfazione immediata dei desideri, ma nell’equilibrio interiore. Movimenti come lo Slow Living e il Minimalismo, offrono una visione contemporanea per tradurre il concetto di Santosa in uno stile di vita orientato al benessere e alla sostenibilità. Lo Slow Living si concentra sulla riscoperta di un ritmo di vita più lento e intenzionale, dando priorità a ciò che conta davvero, parallelamente il minimalismo promuove la riduzione del superfluo, per investire in relazioni ed esperienze di qualità anziché nel possesso di oggetti. Nell'ambito dello Yoga, questa semplificazione può essere vista come una forma di vairagya (distacco) e aparigraha, un precetto che incoraggia a lasciar andare, in linea con Santosha, che invita a rallentare per scorgere la vera ricchezza in ciò che ci circonda. In un mondo sempre più complesso e in rapido cambiamento, riscoprire la semplicità e il valore del tempo non è solo un atto di benessere personale, ma implica una connessione più profonda con la natura e con la comunità, contribuendo a una visione della vita più consapevole, appagante e sostenibile. Leggi anche Che cosa significa SauchaNella filosofia Yoga il termine Saucha (Shaucha o Śauca) esprime un concetto che si riferisce alla purezza e alla pulizia e rappresenta il primo dei cinque Niyama, o osservanze, che sono linee guida etiche per il comportamento personale e l’autodisciplina. La parola saucha deriva dal sanscrito e significa per l'appunto pulire o purificare, essa comprende sia la pulizia esterna che quella interna, il fatto che nello Yoga Sūtra di Patañjali siano due i versi dedicati a saucha anziché uno ne sottolinea l’importanza nella filosofia Yoga. Nella cultura indiana non esiste una separazione definita tra il corpo e la mente, piuttosto essi vengono considerati parte di un tutt’uno e quindi in strettissima connessione. Praticando saucha non solo purifichiamo il nostro corpo fisico ma anche la nostra psiche e le nostre emozioni, difatti, la pulizia della persona e dell’ambiente si riflette nel mondo interiore e rende l’individuo più sano e ricettivo, gettando le basi per una crescita corretta e bilanciata. Dalle origini ai nostri giorniNell’antichità il concetto di saucha emergeva in prima istanza come strategia a tutela della salute degli individui e della comunità, si rivelava un mezzo essenziale di educazione sanitaria per mantenere il benessere fisico delle persone e dei luoghi al fine di prevenire le malattie in un contesto in cui in assenza dei moderni farmaci l’igiene rappresentava una delle migliori armi di prevenzione contro epidemie, infezioni e infestazioni da parte di insetti e parassiti. In ambito spirituale si credeva che la pulizia fosse essenziale per poter instaurare una connessione con il divino, in quanto corrispondeva una mente pura e libera da pensieri e comportamenti errati o dannosi. Tale significato metaforico si riscontra nei rituali di purificazione dell’Induismo e di molte altre tradizioni, emergendo in diverse pratiche in uso ancora oggi come le abluzioni, le aspersioni, il digiuno e il silenzio, molto popolari nei vari culti e filosofie di tutto il mondo. Esempi di queste consuetudini sono il bagno rituale nel Gange attraverso il quale i fedeli induisti credono di poter ripulire il Karma e trovare la guarigione, le tecniche di purificazione per il corpo e la mente dello Yoga come le tecniche di shatkarma, shuddhi, kriya, specifici pranayama e asana, le abluzioni maggiore e minore dell'Islam propedeutiche alla preghiera o ancora il battesimo che secondo la religione cristiana libera il fedele dal peccato originale. Nel contesto contemporaneo tale principio attecchisce in maniera naturale nei moderni approcci filosofici e psicologici che supportano uno stile di vita sano ed equilibrato, diventandone elemento essenziale se non fulcro, basti pensare alla corrente minimalista o alle pratiche di detox emozionale. Le implicazioni di tale concetto, dunque, si estendono ben al di là della semplice detersione fisica e degli spazi, inglobando sempre più la sfera della psiche umana e promuovendo, quindi, una sistematica pulizia mentale ed emotiva al fine di raggiungere il benessere psicologico e ottenere una maggiore efficienza individuale e della comunità. Il SutraQui sotto sono riportati i passi che riguardano di Śauca tratto dallo Yoga Sūtra: 2.40 śaucāt svāṅgajugupsā parair asaṃsargaḥ 2.41 sattvaśuddhisaumanasyaikāgryendriyajayātmadarśanayogyatvāni ca Traduzione śaucāt: dalla pulizia svāṅga: il proprio corpo jugupsā: repulsione, indifferenza parair: degli altri a: non saṃsargaḥ: contatto [Invece,sulversantedeglieffetti,] dalla pulizia sorge il disgusto per le proprie membra (svāṅgajugupsā) e l’evitamento di ogni rapporto (asaṃsarga) con le [membra] altrui (para) [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] sattvaśuddhi: purezza interiore saumanasya: soddisfazione della mente, giusta comprensione ikāgrya: focalizzazione indriyajaya: controllo dei sensi ātmadarśana: visione dell’essenza yogyatvāni: idoneità ca: e Sorgono inoltre le idoneità (yogyat- va) alla limpidezza dell’intelletto, alla serenità, all’acume monofocale, alla padronanza dei sensi e alla visione del sé. [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Attraverso la pratica della purificazione si raggiunge l’indifferenza verso il corpo e verso le distrazioni a cui esso induce, ciò dona maggiore chiarezza mentale, incrementa la capacità di comprendere, di concentrarsi e il controllo sui sensi, inoltre, permette di accedere a una migliore visione della propria vera natura e quindi di se stessi e del mondo. Shaucha nella vitaL'applicazione di saucha nella vita di tutti i giorni riguarda l'adozione di pratiche e abitudini che promuovono la pulizia fisica e mentale, ciò implica il mantenimento dell’igiene personale, la pulizia dell’ambiente circostante e la cura di sé attraverso attività come l’esercizio fisico, l’alimentazione, tecniche di meditazione, di respirazione e pratiche detossificanti. Saucha invita a cominciare dalla pulizia esterna in modo da ricreare per “simpatia” lo stesso ordine all’interno, quando ci sentiamo confusi o sopraffatti iniziamo dalla detersione del corpo: dopo un bel bagno o una doccia anche la mente sarà più predisposta a liberarsi dalla spazzatura psicologica. Introdurre nella propria quotidianità delle routine che creino ordine e pulizia può avere un impatto positivo nella vita quotidiana, dunque, sistemiamo frequentemente gli ambienti in cui soggiorniamo, manteniamo il corpo pulito e in forma, rispettiamo gli orari e gli appuntamenti, prediamoci del tempo per riflettere su noi stessi, cerchiamo di aderire ai naturali ritmi circadiani e di seguire la stagionalità. In ambito lavorativo o in generale quando vogliamo migliorare la nostra progettualità iniziamo col mantenere pulita la nostra postazione, un ambiente ordinato aiuterà a avere maggiore concentrazione e si rifletterà positivamente sulla nostra mente; una buona organizzazione della nostra agenda ci aiuterà a essere più efficienti e ad avere una visione di insieme più ampia e dettagliata; infine, praticare la meditazione e il silenzio ci aiuterà a scovare le idee più valide e a metterle in relazione tra loro, rendendo di fatto più facile la loro attuazione e la realizzazione dei nostri progetti. A tal fine la pratica del journaling è uno strumento estremamente utile per gestire la propria quotidianità in modo efficace, organizzato e produttivo, consentendo di mantenere il controllo sulle proprie responsabilità e di migliorare i processi decisionali, le prestazioni lavorative, la pianificazione degli eventi e il monitoraggio dei progressi. Strutturiamo, dunque, un calendario, un’agenda o un diario in cui tenere traccia di tutte le nostre attività più significative, cercando sempre di scandire con una certa armonia il nostro tempo: evitiamo che la time-lapse giornaliera sia sovraffollata o caotica in modo che gli impegni non si accavallino, assicuriamoci che ogni evento abbia il giusto spazio che merita, mettiamo vicine tra loro attività compatibili o che abbiano comunque una certa affinità. Saucha incoraggia anche le pratiche che si prefiggono di ripulire l'organismo dall’interno, attraverso le tecniche depurative dello Yoga ma anche tramite l’alimentazione, per questo ci invita a consumare cibi puri e nutrienti e a non eccedere nelle quantità, in particolare una dieta detox è quella più confacente all’attuazione di questo concetto, meglio ancora se veg in modo da accordarla ad ahimsa, il principio di non violenza che punta a generare nel mondo meno sofferenza possibile. Un corpo non costipato, purificato da elementi nocivi e tossine, ritrova con più facilità leggerezza, salute e una maggiore presenza mentale, perciò, idratiamoci a sufficienza e prediligiamo alimenti salubri, come frutta, verdura, legumi, cereali integrali, semi oleosi, farine non raffinate e in generale cibi il meno possibile processati. Oltre a prendersi cura del nostro benessere generale, la pratica di saucha aiuta a liberarci dagli orpelli psicologici e relazionali che nel tempo si appiccicano alla nostra persona, soffocando e bloccando la nostra capacità di crescere e di rinnovarci, per questo ci invita a essere consapevoli delle abitudini, delle interazioni e della nostra vita emotiva in generale. Fare pulizia interiore implica di liberarci dai pensieri inutili o molesti, dalle relazioni dannose, dalle emozioni e dalle abitudini negative in modo da creare lo spazio necessario per uno sviluppo armonico della persona. Per far ciò occorre una certa dose determinazione e coraggio che non sempre sentiamo di avere a disposizione: proviamo a dare più fiducia a noi stessi e a strutturare un vero e proprio metodo, un set di regole che ci aiutino a rispettare i nostri propositi; se ci rendiamo conto di non farcela da soli chiediamo il supporto degli altri, magari di un professionista, così come quando avvaliamo del medico per la salute del corpo, di collaboratori per la gestione della casa, del lavoro o per la cura dei figli. Se con aparigraha impariamo a lasciare andare gli attaccamenti, attraverso saucha si procede ad eliminare di fatto tutte le abitudini e le dipendenze che gravano su di noi o che ci distraggono dagli obbiettivi importanti, a partire dall’uso compulsivo dei dispositivi sino alle relazioni tossiche. Usiamo il principio di verità (satya) per essere onesti con noi stessi: poniamoci delle domande e rispondiamoci sinceramente, poi cerchiamo di trovare la strategia migliore per fare pulizia, spesso un bel taglio netto è la soluzione migliore, uno spazio interiore libero e ordinato è il primo passo per avere una visione limpida e progredire in maniera sana e armoniosa. Integrando questo concetto nella nostra vita quotidiana e nelle pratiche yoga, creiamo un terreno favorevole per il nostro benessere psicofisico e per la trasformazione, possiamo così sperimentare un profondo senso di equilibrio e appagamento, sviluppare una maggiore chiarezza mentale e creare spazio per accogliere nuova linfa, predisponendoci al rinnovamento e al raggiungimento di uno stato di coscienza più elevato. Leggi anche Che cosa significa AparigrahaAparigraha, è l'ultimo dei cinque Yama della filosofia Yoga, si riferisce al concetto di non attaccamento, ovvero alla non possessività e non avidità. La parola aparigraha deriva dal sanscrito dove a significa "non" e parigraha significa "possedere" o "prendere". Nello Yoga questo principio è considerato un percorso verso l'appagamento e la liberazione, che nella vita quotidiana incoraggia gli individui a lasciare andare quello che non serve, ad allentare l'attaccamento eccessivo verso oggetti, beni (materiali e non) ma anche il sentimento di possesso nei confronti delle persone e degli altri esseri viventi, inoltre, spinge a coltivare la gratitudine e il momento presente, facendoci apprezzare ciò che abbiamo liberandoci dal costante impulso ad avere di più. Praticando aparigraha impariamo a lasciar andare il superfluo in modo da creare spazio per la crescita personale e lo sviluppo spirituale. Dalle origini ai nostri giorniNel corso della storia anche il concetto di aparigraha si è evoluto, anticamente in India veniva praticato dai rinuncianti (sadhu) e dagli asceti che conducevano una vita semplice ed essenziale, ancora oggi è un principio seguito da chi vuole privilegiare l'aspetto spirituale, specialmente in ambito religioso, come nel caso dei monaci jainisti, per i quali aparigraha costituisce uno dei cinque giuramenti. In Occidente, esistono pratiche assimilabili a tale principio, che trovano la loro più spiccata espressione nel voto di povertà al quale si legano alcune congregazioni e ordini monastici, ma si colgono alcune declinazioni convergenti anche nel mondo laico, in special modo in ambito filosofico e sociale, ad esempio nella celebre teoria della decrescita felice. L’attaccamento ai beni materiali viene considerato da sempre un ostacolo al progresso spirituale in quanto porta la mente e il cuore verso distrazioni esterne, facendo perdere di vista l'essenza della vita e il mondo interiore, per tale motivo è praticato con tanto fervore in ambito mistico e filosofico, tuttavia, nella società contemporanea questo principio viene interpretato in maniera più elastica in modo da poter essere fruito da un numero maggiore di persone e adattarsi meglio allo stile di vita moderno; così, aparigraha trova un compromesso virtuoso ma praticabile, stabilendo un equilibrio tra i nostri bisogni materiali, i desideri e le nostre esigenze di crescita spirituale. Il SutraQui sotto è riportato il passo che riguarda di aparigraha tratto dallo Yoga Sūtra: 2.39 aparigrahasthairye janmakathaṃtāsaṃbodhaḥ Traduzione aparigraha: non possesso sthairye: stabilità janma: nascita, vita kathaṃtā: il perchè, il senso saṃbodhaḥ: piena conoscenza Quando si è stabili nel non trattener [nulla per sé] (aparigrahasthairya), si com- prende (saṃbodha) l’effettiva modalità del generarsi (janmakathaṃtā). [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Solo chi è distaccato dalle cose materiali e non è possessivo può comprendere pienamente il senso della vita Aparigraha nella vitaAparigraha nella vita quotidiana può aiutarci a vivere più leggeri e felici, questo principio ci invita a coltivare la sobrietà e la moderazione, a possedere e acquisire solo ciò che è necessario, rinunciando al superfluo. Se ripensiamo alla quantità di roba da cui siamo circondati ci renderemo facilmente conto che non abbiamo bisogno della maggior parte delle cose che possediamo per condurre una vita felice e appagata, nonostante ciò, tendiamo ad accumulare beni di ogni genere e lo facciamo non solo per avidità, ma anche spinti dai dettami esterni, come quelli del fast fashion, della politica dell'usa e getta, degli status symbol imperanti e dei modelli che ci propinano i social, sviluppando inevitabilmente una vera e propria dipendenza dal possesso. Tuttavia, molti di questi beni non sono effettivamente necessari né vantaggiosi, piuttosto rappresentano delle foglie secche e spesso malate che finiscono per costituire inutile zavorra per noi stessi e per l'ambiente. La strada giusta per alleggerirti può essere quella di abbracciare il minimalismo, uno stile di vita sobrio ed essenziale, che invita a mantenere solo i beni che hanno un senso nella propria quotidianità e sprona a ridurre i consumi e gli sprechi. Una strategia valida è il decluttering periodico, un ottimo esercizio che insegna il non attaccamento: eliminare o donare tutto quello che non usi ti farà sentire più leggero e creerà spazio fisico e mentale. Fai acquisti consapevoli, chiediti sempre se è il caso di comprare qualcosa di nuovo, se è necessario, sostenibile o se possiedi già un bene simile, prendi solo ciò che ti serve davvero, alla fine anche il tuo portafogli e il pianeta ringrazieranno. Quando possibile condividi i beni e i servizi con gli altri, non sempre è necessario possedere le cose, in molti casi è possibile farne un uso partecipato più responsabile: sfrutta i mezzi pubblici, il car e l'home sharing, le biblioteche, i laboratori e gli orti comunitari, ancora più in piccolo l'abbigliamento e tanti altri oggetti di uso quotidiano possono essere condivisi con più soggetti, ad esempio da persone che fanno parte dello stesso nucleo familiare o che trascorrono molto tempo insieme. Aparigraha ci invita a coltivare il distacco dalle cose materiali e non solo, praticando questo principio possiamo liberarci dagli attaccamenti emotivi per abbracciare la semplicità e trovare appagamento in relazioni di valore. Il distacco può essere un passaggio davvero difficile e doloroso, soprattutto se riguarda la rinuncia a determinati sentimenti o la separazione dalle persone a cui siamo legati, come nel caso di un lutto, di relazioni sulla via del tramonto o rivelatisi tossiche, tuttavia, imparare a lasciare andare è fondamentale per il nostro benessere psicofisico, a volte dare un taglio è indispensabile per voltare pagina e procedere con la propria vita e la propria evoluzione interiore. Spesso facciamo fatica a fare i conti con la mutevolezza dell'esistenza: il trascorrere del tempo, lo sfiorire della bellezza giovanile, le trasformazioni dovute ad una malattia, un licenziamento o la conversione di un lavoro, la morte, possono generare sofferenza, paura e senso di instabilità, imparare a sostenere queste sfide con un po' di distacco ci aiuterà ad affrontare meglio le perdite e i cambiamenti. Aggrapparsi a ideali, principi, sentimenti e abitudini non più in armonia con il proprio modo di essere o non salutari può rappresentare un impedimento alla propria crescita, recidere il legame può essere liberatorio, può lasciare spazio a qualcosa di nuovo, più in sintonia con la propria essenza. Ogni tanto mollare la presa sulle idee è salutare, ad esempio se ti accorgi che sono deleteree, oppure diventate obsolete, o ancora non riescono a progredire o non apportano nulla di significativo nella tua vita. Tenere le idee riservate, inoltre, non sempre si rivela la soluzione migliore, a volte non permette lo sviluppo delle potenzialità di cui sono portatrici, così per colpa dell'avidità finiamo per tarpare le ali ai nostri pensieri e ai nostri progetti, piuttosto scegli di condividerle con gli altri, darai loro una chance in più per crescere ed evolversi in modi talvolta inaspettati. Di tanto in tanto chiediti "Che valore dà alla mia vita e a quella degli altri?", "Mi appesantisce o mi arricchisce?", "Sono in grado di gestire tutto questo?", "Sono in grado di farlo da solo?", "Crescerebbe se condivisa?", "Potrebbe essere più utile a qualcun altro?". Il desiderio esprime il forte attaccamento alle cose, alle persone, alle idee e alla vita stessa, di per sé non è negativo perché ci aiuta a tenere acceso l'istinto di sopravvivenza e rappresenta uno stimolo a migliorare, tuttavia se non controllato infiamma l'ego che finisce per prendere il sopravvento, spingendoci a rivolgere tutta l'attenzione verso l'esterno anziché dentro noi stessi e verso il proprio mondo interiore e facendoci perdere di vista le cose che contano davvero. Quando ti senti bombardato dai desideri compulsivi, concentrati sul momento presente e su ciò che hai anziché su ciò che vorresti, focalizzati sui sentimenti positivi e sugli affetti sinceri, vivi giorno per giorno senza accumulare beni e relazioni superflue. Esercita santosha, cioè impara a riconoscere l'abbondanza che già esiste dentro e intorno a te piuttosto che cercare costantemente fonti edonistiche di soddisfazione: tenere solo l'essenziale ti farà godere della meravigliosa grazia delle piccole cose e ti farà procedere più spedito verso gli obbiettivi veramente importanti. Seguire il principio di non attaccamento, dunque, non significa rinunciare a tutti i beni materiali né ai propri desideri, bensì percorrere il cammino della vita più leggeri e con meno impedimenti. Aparigraha ci rende liberi, insegnandoci a lasciare andare, ad abbracciare il viaggio piuttosto che fissarci sul raggiungimento della meta, ci incoraggia a essere presenti e ad accettarci come siamo, senza fronzoli e giudizi, ci fa scoprire tutta la bellezza della semplicità, ci indica dove risiede il vero valore delle cose, mostrandoci l'essenza della vita e ricordandoci che la vera felicità non viene dall'esterno ma è dentro di noi. Leggi anche Che cosa significa Brahmacharya Brahmacharya, fa parte degli Yama, i principi morali della filosofia Yoga, e si riferisce alla pratica dell'autocontrollo e della moderazione dei sensi con particolare riferimento all'energia sessuale. La parola brahmacharya è composta da due termini sanscriti: brahma che significa "Assoluto" o “divino” e che si usa per indicare il dio vedico della creazione, colui che è non diverso da Sé o Atman (essenza), e charya che invece vuol dire “procedere”, “attività", “condotta”, la parola completa può essere, dunque, intesa come “agire secondo la propria essenza” oppure come “procedere verso l’essenza o l'Assoluto”. Brahmacharya è di certo il principio tra Yama e Niyama più discusso e controverso, non è insolito che generi una certa confusione in chi vi si approccia, nei prossimi paragrafi tenteremo, perciò, di fare un po’ di chiarezza e di conoscere meglio questo concetto. Iniziamo col dire che esso è diverso dal semplice celibato, si riferisce piuttosto al pieno controllo del corpo e della mente, alla capacità di dominare gli impulsi dei sensi, quindi, i pensieri e le azioni che ne derivano. Nella filosofia Yoga, brahmacharya è visto come un mezzo per preservare e incanalare l'energia vitale, nota come prana, in modo da sublimarla e innalzarla verso l'alto, praticando la continenza è possibile sfruttare questa energia per reindirizzarla verso obiettivi più elevati come la crescita spirituale e l'autorealizzazione. Dalle origini ai nostri giorni Anticamente l’astinenza veniva praticata da monaci e asceti che rinunciavano ai desideri mondani e dedicavano la propria vita alla ricerca spirituale. Il celibato è un voto molto comune in ambito religioso anche in Occidente proprio perché si ritiene che aiuti a rimanere concentrati verso il divino, evitando le distrazioni della carne, è noto che i giainisti e la maggior parte dei monaci delle diverse confessioni e filosofie facciano voto di castità durante il loro percorso spirituale. Oltre allo Yoga Sutra che esamineremo a breve, diversi testi antichi citano questo Yama, ad esempio nel Shandilya Upanishad si definisce brahmacharya come l'astensione sessuale in tutti i luoghi e in tutti gli stati della mente, della parola e del corpo, mentre nel grande poema epico Mahabharata viene riconosciuta quale virtù in grado di condurre alla conoscenza del Brahman e all'unione con il Sé Supremo. In India brahmacharya era usato per riferirsi al primo degli āśhrama, le quattro fasi della vita (brahmacharya, grihastha, vanaprastha e sannyasa), essa occupava tipicamente i primi 20–25 anni degli appartenenti alla casta dei Brahmani (sacerdoti e intellettuali) ma poteva essere sperimentata anche in altri periodi della vita. I giovani studenti che seguivano un maestro spirituale vivevano nel gurukul (la casa/scuola del Guru), rispettando un rigoroso celibato per meglio concentrarsi negli studi e apprendere gli strumenti per l’autorealizzazione, in ogni caso solo dopo questo periodo si poteva celebrare il Samavartanam, la cerimonia di diploma per accedere al grihastha, cioè al matrimonio e alla vita familiare, altrimenti si poteva proseguire intraprendendo direttamente la strada verso l’ascetismo con la terza e la quarta fase, ovvero vanaprastha (abitante della foresta) e sannyasa (rinuncia). Il concetto di brahmacharya, tuttavia, si è evoluto nel corso della storia, la castità non è più richiesta ai giovani studiosi né ai praticanti yogin, le interpretazioni moderne hanno una visione molto più ampia ed elastica di questo principio, sottolineando piuttosto la necessità di bilanciare le energie, l’importanza di intraprendere delle relazioni sessuali sane e mantenere una mente libera dalla schiavitù del desiderio, in modo da non non interferire negativamente sulla crescita armonica e virtuosa dell'individuo. Il SutraQui sotto è riportato il passo che riguarda di brahmacharya tratto dallo Yoga Sūtra: 2.38 brahmacaryapratiṣṭhāyāṃ vīryalābhaḥ Traduzione brahmacarya: continenza, procedere verso l'essenza pratiṣṭhā(yāṃ): essere stabili vīrya: vigore, energia lābha(ḥ): acquisire, guadagnare Quando stabilmente fondati nel non compimento dell’attività sessuale (brahma- caryapratiṣṭhā), vi è il preservarsi del vigore (vīryalābha). [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Praticando la moderazione delle attività legate ai sensi con fermezza e convinzione si può procedere verso la ricerca dell’essenza, in questo modo si ottiene grande forza e vitalità. Brahmacharya nella vita Quella sessuale rappresenta un’energia molto potente, si tratta di uno dei motori trainanti per il genere umano e per gli altri esseri viventi, un’istinto primordiale utile a garantire la sopravvivenza della specie, tanto che molte scelte che si compiono ogni giorno sono influenzate più o meno direttamente da essa, spesso senza che nemmeno ve ne sia la consapevolezza. Il dispendio di risorse fisiche e psicologiche che destiniamo alla sfera sensuale può essere davvero molto elevato, soprattutto in alcuni periodi della vita, e può portare a dei disequilibri in altri ambiti della nostra esistenza. Brahmacharya ci aiuta a capire se è il caso di impiegare le nostre risorse per soddisfare i sensi o se qualche volta possiamo risparmiare le energie per realizzare qualcosa di più elevato, questo implica una riflessione più attenta verso i pensieri, le azioni e le parole che riguardano i nostri impulsi e desideri. Esaminiamo le nostre abitudini, il modo in cui utilizziamo la nostra energia, brahmacharya significa conoscere l'impatto che le nostre scelte hanno su noi stessi e sugli altri in modo da prendere decisioni consapevoli in merito alle relazioni affettive e agli obbiettivi prioritari per la nostra realizzazione. Cerchiamo di dare il giusto valore alla sessualità, non anteponiamola mai alla fiducia e al rispetto verso il partner, ricordiamo che nelle pratiche erotiche il consenso deve essere sempre una priorità, riserviamo il giusto spazio al piacere sensuale: fisico o mentale che sia, esso si deve armonizzare all’interno della nostra vita e non dovrebbe rappresentare un’ostacolo ai nostri obbiettivi e alla nostra crescita interiore. La pratica di brahmacharya attraverso una sapiente gestione dell'energia permette di sviluppare forza e vitalità per condurre la propria esistenza guidati da una visione superiore, ma può essere utile anche per lo sviluppo di una vita sessuale armoniosa e per una genitorialità feconda, sperimentata in maniera profonda e consapevole. Se è vero che brahmacharya tradizionalmente si riferiva all'energia sessuale, nella nostra epoca questo principio andrebbe esteso a tutti gli eccessi legati alla sfera dei sensi e ai diversi ambiti della vita, ciò si traduce nel porre un limite all'edonismo sfrenato e inconcludente. Spesso, infatti, siamo schiavi degli istinti, tanto da delegare ai piaceri materiali il successo, il senso di realizzazione, persino la nostra felicità, tuttavia, si tratta di godimenti effimeri che in breve tempo lasciano la persona nuovamente in preda alla bramosia e all'insoddisfazione, che impiegano grandi quantità del nostro tempo e sottraggono ingenti porzioni dal nostro capitale energetico. Le dipendenze dal sesso, dal cibo, dallo shopping, dalle droghe, dai media e oggi più che mai dai social, risucchiano vitalità utile alla nostra trasformazione interiore, rinunciare alla ricerca spasmodica dei piaceri sensuali aiuta a creare lo spazio necessario per entrare in contatto con la nostra vera natura. Questo non vuol dire rinunciare ai piaceri dei sensi, semmai significa includerli nella propria vita in maniera più equilibrata, pertanto porsi alcune domande può essere utile a comprendere se è il caso di modificare qualcosa. Chiediamoci "Sto sprecando le mie risorse psicofisiche solo per inseguire un capriccio dei sensi? È davvero utile per me in questo momento? Sto rispettando l’altra persona? Si tratta di un pensiero ossessivo o ben bilanciato? Che implicazioni ha nella mia vita quotidiana? Sta interferendo con obbiettivi più importanti?". Moderare le attività edonistiche apporta diversi benefici, incanalare l'energia dei sensi in una direzione diversa aiuta a trovare stabilità e vigore, stimola la creatività, insegna la disciplina, migliora la concentrazione, sviluppa chiarezza mentale, contribuisce a renderci più proficui e permette di investire sulla crescita della propria persona, infine ci prepara ad affrontare le varie fasi della vita e i momenti di difficoltà con maggiore serenità. Lo Yoga offre diverse pratiche fisiche e meditative per imparare a gestire l'energia sensuale: essere in grado di controllare i propri impulsi permette di vivere i propri desideri pienamente ma in maniera bilanciata e costruttiva, consente di preservare la forza vitale, lasciandoci a disposizione la carica necessaria per i nostri progetti più importanti o per i momenti in cui ne avremo maggiormente bisogno. Quando la mente non si dirige in maniera ossessiva verso il corpo o verso una sua una specifica parte, né viene distratta da un qualche impulso o attrazione sensuale, si può concentrare verso qualcosa di più grande, brahmacharya aiuta a comprendere che siamo molto di più del corpo in cui abitiamo, che la nostra natura è ben più vasta, una natura che appunto procede verso l'infinito. Leggi anche Che cosa significa AsteyaAsteya, è il terzo dei cinque Yama, i fondamenti etici della filosofia Yoga. Il termine deriva dal sanscrito e significa non rubare, dove "a” si traduce come "non", mentre "steya” con la parola “rubare”, ed esprime il concetto di non appropriazione, il principio che ci vieta di prendere possesso di ciò che non ci appartiene. Asteya rappresenta il limite da non superare, promuove l'idea di onestà sia nei confronti dei singoli individui che della società e della natura, ricordandoci che non dovremmo impossessarci di beni di alcun genere senza il consenso dei legittimi proprietari, né causare danni alle cose che non sono nostre e tantomeno alle altre persone. L’appropriazione indebita è un'arma a doppio taglio, se da un lato tende a soddisfare i capricci della mente, dall'altro si comporta come un come un boomerang, in quanto si riflette negativamente non solo su chi ha subito il danno, ma anche sulla comunità, sull’ambiente, e quindi pure su chi lo ha causato. Dalle origini ai nostri giorni Il concetto di asteya si è evoluto nel tempo, adattandosi nei secoli ai sistemi civili ed economici di tutto il mondo, tanto che il "non rubare" è un principio radicato non solo nella cultura orientale ma è altrettanto intrecciato in quella occidentale sin dagli albori della civiltà. È proprio grazie a tale fondamento che risulta possibile convivere con le altre persone in maniera serena e pacifica, esso, infatti, sta alla base della condotta morale e delle norme giuridiche di ogni società civile antica e moderna, limita e regola il comportamento degli individui e delle masse nei confronti dell'altro, della comunità e dei popoli, fa parte dei principi sociali di molti sistemi filosofici, come quello Yoga e lo ritroviamo nell’etica religiosa della maggior parte delle confessioni, a partire dall'Induismo sino ad arrivare al Cristianesimo e all'Ebraismo, dove rappresenta uno dei Dieci comandamenti descritti nella Bibbia. Nel mondo antico in genere rubare era considerato un reato grave che poteva condurre a punizioni molto severe, un esempio noto è la legge del taglione, per cui chi infliggeva intenzionalmente un danno ad un'altra persona veniva punito con un danno di uguale entità all'offesa recata, un furto, pertanto, poteva prevedere il taglio delle mani del ladro e persino la condanna a morte per le perdite ritenute più rilevanti. Nella società moderna fortunatamente siamo più comprensivi e le punizioni in genere si eseguono nel rispetto dei diritti umani, inoltre, asteya ha assunto delle sfumature più sottili e complesse, che riguardano anche i beni immateriali, non si tratta solamente di rubare oggetti concreti ma anche le idee, i sentimenti, l’energia, il tempo degli altri, il patrimonio comune. Il Sutra
Qui sotto riportiamo il passo tratto dallo Yoga Sūtra che parla di asteya: 2.37 asteyapratiṣṭhāyāṃ sarvaratnopasthānam Traduzione asteya: non rubare pratiṣṭhā(yāṃ): essere stabili sarva: tutto ratna: gioielli upasthāna(m): apparizione Quando stabilmente fondati nel non rubare (asteyapratiṣṭhā), si palesa [l’indole di chi dispone di] ogni genere di gemma. [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Seguendo il principio di non appropriazione con fermezza e convinzione appariranno ai nostri occhi tutte le cose più preziose, riusciremo cioè a scorgere la vera ricchezza. Asteya nella vita Abbiamo detto che asteya non si limita ai beni fisici, ma comprende anche quelli immateriali, non rubare, dunque, significa anche non sottrarre un'idea al suo legittimo proprietario, non copiare dati e progetti senza permesso, non appropriarsi del lavoro o delle conoscenze altrui, semmai riconoscerne il valore e collaborare apertamente con chi ha delle idee migliori delle nostre. L’atto di rubare le idee e i pensieri degli altri ci rende pigri e inetti, atrofizza le nostre capacità: agire con integrità e impegno, riconoscere l’operato degli altri, invece, ci permetterà di scoprire risorse che non credevamo di avere e di raggiungere gli obbiettivi con maggior soddisfazione e gioia. Teniamo sempre presente che quando rubiamo agli altri stiamo sottraendo potenziale a noi stessi. Le applicazioni di asteya nella vita quotidiana comprendono la sfera emotiva, rispettare questo principio aiuta trovare stabilità e ad avere una vita affettiva rilassata. Quando, ad esempio, desideriamo le attenzioni di una persona, usare l’inganno per ottenerle o prevaricare sui sentimenti altrui equivale a rubare. Agire sotto la luce del sole, con coscienza e lealtà, imparare ad accettare che non sempre saremo ricambiati, valutare l'impatto che possono generare le nostre scelte, ci aiuterà a vivere le relazioni in maniera serena, senza rimorsi e sensi di colpa. La vera amicizia, l’amore e i rapporti sociali profondi si basano sulla fiducia e sul rispetto, due principi che sono in grado di rendere la nostra vita sentimentale più matura e appagante. Il concetto di asteya non si riferisce solo all'ambito privato, l'uso improprio del patrimonio pubblico ne rappresenta un'esplicita violazione. Applicare questo principio al bene comune vuol dire prima di tutto onestà, essere cittadini virtuosi: ad esempio, sebbene spesso sia fin troppo oneroso, pagare le tasse significa avere a cuore le condizioni della comunità ed evitare di far gravare questo dovere solo su chi è più retto di noi; allo stesso modo è importante non sottrarre né distruggere elementi di pubblica utilità, ad esempio, occupare un parcheggio destinato ai disabili, magari perché abbiamo fretta o non abbiamo voglia di fare due passi in più, equivale a rubare un diritto a una persona in difficoltà. Infine, è essenziale non deturpare l’arte e in special modo la natura in quanto rappresentano un patrimonio fondamentale per il benessere di tutta l’umanità, è di fondamentale importanza preservare e agire in maniera coscienziosa per garantire un futuro al nostro pianeta e alle prossime generazioni. A volte non ci rendiamo conto che delle azioni apparentemente banali come incidere un monumento, rubare dei granelli di sabbia o tagliare delle piante, possono condurre nel tempo a delle conseguenze disastrose, immaginate se ognuno portasse via qualcosa anche di molto piccolo da un determinato spazio: in breve tempo non rimarrebbe più nulla e quel luogo sarebbe per sempre compromesso. Come abbiamo visto nel paragrafo dedicato allo Yoga Sutra, il verso riservato ad asteya è portatore di un messaggio profondo, che cela una lezione di rara bellezza, esso ci indica, infatti, come trovare ciò che dà veramente valore alla vita. Per ottenere questa visione chiara e meravigliosa possiamo attuare alcune piccole strategie quotidiane: smettere di nutrire i desideri fuori controllo, contenendo i capricci della mente e i sentimenti egoistici, come l'avidità e l'invidia, darà più spazio ad emozioni positive e permetterà di mettere a fuoco le cose che davvero importanti; praticare ahimsa, ovvero seguire il principio della non-violenza, ci aiuterà a non commettere azioni che possono danneggiare gli altri, l'ambiente e noi stessi; coltivare la generosità con azioni di condivisione e di altruismo, aumenterà il benessere personale e della comunità, in un mondo di maggior condivisione, infatti, la necessità e il desiderio di appropriarsi indebitamente dei beni altrui tendono ad esaurirsi spontaneamente. Possiamo iniziare proprio da piccoli gesti di condivisione, come mettere a disposizione un oggetto, un’idea, uno spazio o fare un complimento a chi ha fatto meglio di noi, mentre se vogliamo approfondire maggiormente la pratica di asteya possiamo dedicarci ad azioni disinteressate e al volontariato, donando il nostro tempo, le nostre risorse o impiegando il nostro ingegno per specifici progetti, particolari individui o per la comunità. Anche fare scelte consapevoli in ambito ecologico e alimentare è una linea guida che dovrebbe accompagnare la nostra condotta quotidiana, per evitare di sottrarre inutilmente risorse all'ambiente, così da non rubare il futuro del nostro pianeta e dei nostri figli. Praticare asteya aiuta a riconoscere il nostro valore e quello di ciò che ci circonda, nel momento in cui moderiamo il nostro ego, evitando di perdere tempo a inseguire ciecamente i nostri desideri, smettiamo di recare inutile sofferenza al prossimo, di distruggere l’ambiente in cui viviamo e diventiamo capaci di vedere e apprezzare ciò che conta davvero, poiché la nostra mente sarà libera dai capricci che generano in essa tumulto e confusione. Asteya si rivela, dunque, un limite che restituisce libertà e una strategia utile per vivere in maniera più serena, uno strumento per scoprire le nostre potenzialità e tutta la ricchezza essenziale della vita. Leggi anche Che cos'è l'ikigai? Piccoli passi verso la felicitàIkigai è un termine con il quale i giapponesi indicano il vivere in armonia con amore, felicità e passione per le proprie aspirazioni, iki significa “esistenza” e gai designa lo “scopo“, quindi il suo significato letterale è "scopo della vita". Nella sua opera intitolata “Il piccolo libro dell’ikigai” l’autore, Ken Mogi, neuroscienziato giapponese ricercatore al Sony Computer Science Laboratories, ci guida attraverso i 5 pilastri dell’ikigai, sviluppando una comprensione profonda per la semplicità e l’armonia e fornendo uno spaccato della cultura giapponese in cui suddetti pilastri trovano terreno fertile per germogliare e trovare ampi consensi. In realtà, l’ikigai rappresenta una riflessione sul proprio essere e sul proprio vivere ed è applicabile al mondo occidentale quanto quello orientale, è il personale motivo per cui ci alziamo la mattina. Non si tratta di gesti di grande portata, che generalmente arrecano un piacere solo temporaneo, bensì di quelle piccole azioni quotidiane che ci procurano soddisfazione e che prendono in considerazione anche il benessere altrui, regalandoci una felicità più duratura. Seguire il proprio ikigai vuol dire dare un senso alla propria vita, per farlo occorre nutrirlo con costanza e dedizione giorno dopo giorno e rispettare tutti i cinque principi su cui si basa che approfondiremo qui sotto. I cinque pilastri dell'Ikigai1. Cominciare a piccoli passi. Il primo punto è essenziale per trovare la felicità e vivere in armonia, di solito ci concentriamo sulle grandi imprese e sugli obbiettivi più appariscenti, i giapponesi hanno capito che ciò che riempie di significato la nostra vita sono invece le piccole azioni, fatte con passione e dedizione, dal lavoro alla cura per la propria famiglia. La cultura giapponese è pregna di piccoli gesti quotidiani, effimeri e spesso monotoni, ma che tessono con pazienza il fulcro centrale dell’esistenza. 2. Dimenticarsi di sé. Rappresenta un pilastro dell’ikigai molto personale, con esso dobbiamo prendere atto delle nostre sensazioni e lasciarle andare progressivamente, dare meno importanza a questioni che sembrano essere vitali per noi ma che in realtà non lo sono affatto se guardate da un’angolazione più ampia. Il dimenticarsi di sè è strettamente connesso con lo stare qui ed ora, trova delle forti connessioni con la filosofia buddista e con la meditazione yoga, ed è essenziale per osservare le cose da una giusta prospettiva, come un bambino guarda il mondo, senza preconcetti o pregiudizi. 3. Armonia e sostenibilità. L’intento è quello di portare a termine i nostri gesti quotidiani con armonia e con uno sguardo al rispetto altrui. La nostra esistenza è collegata a quella degli altri, considerare che siamo tutti interconnessi e che occorre rispettare gli equilibri tra noi e il mondo esterno aiuta a tutelare l’ambiente e il prossimo, rende più empatici e dona l’armonia necessaria per vivere senza stress, per far ciò bisogna abbandonare le innumerevoli sovrastrutture che appesantiscono l’esistenza e concentrarsi sul momento in cui si vive. 4. Stare nel qui e ora. E’ un principio molto delicato, sensibile al rumore di fondo della società, un piccolo equilibrio che va attenzionato e ricercato. Concentrarsi sul momento, dimenticando il passato e smettendo dipreoccuparsi per il futuro permette di raggiungere la massima dedizione in ciò che si sta facendo,rendendo il momento vissuto unico e reale. Stare qui e ora ci rende vivi, ci aiuta ad essere più presenti durante il lavoro, con gli amici e a casa, migliorando i risultati delle nostre azioni e i rapporti con gli altri. 5. La gioia per le piccole cose. Si tratta di un principio universale molto affine a quello di Santosha nello Yoga che insieme allo stare nel qui e ora conferisce stabilità all’esistenza, leggerezza e voglia di vivere. Essere contenti per aver fatto una buona colazione o godere di una bella giornata di sole mentre si passeggia in un bel giardino odoroso, possono sembrare scontati tuttavia rappresentano il sale della vita, ciò che riesce a riempire di bellezza le nostre giornate nonostante le avversità, riconoscere e saper apprezzare le piccole cose dona amore e serenità e ci avvicina all’ideale di felicità dell'Ikigai. Perchè trovare il proprio ikigaiIn un mondo frenetico in cui è facile perdere di vista le cose importanti, l’ikigai ci riporta alla realtà e all’essenza, ci insegna a prendere il giusto tempo per noi e per le cose che contano davvero, rendendo la vita piena e soddisfacente. Sono i gesti quotidiani che riempiono di valore la nostra esistenza, l’amore che mettiamo in ciò che facciamo ogni giorno, che sia il lavoro, la propria passione, la cura della casa o delle persone care, per ognuno è diverso. Trovare il proprio ikigai e seguire i 5 pilastri può aiutarci ad imboccare la strada giusta per avvicinarci alla felicità stabile e duratura a cui aspiriamo. Il concetto di ikigai, dunque, oltre a trovare una connotazione pressoché perfetta in una cultura orientale come quella giapponese, oggi comincia a trovare terreno fertile anche nella società occidentale, in cui stress e apatia stanno rovinando il quotidiano e dove si va sempre più spesso alla ricerca di nuovi percorsi per trovare la gioia, l’amore e l’armonia. L’ikigai è un cammino e uno stile di vita che ci guida verso quella felicità. Nicolò Piluso Leggi di più Che cosa significa Satya Satya è un termine che deriva dal sanscrito e si traduce come verità. Secondo la filosofia Yoga rappresenta il secondo dei cinque Yama, le norme etiche che lo yogin dovrebbe osservare lungo il suo cammino. Sat è una radice che troviamo in molte espressioni della cultura indiana, ad esempio nella parola sattva “puro” o nel mantra Sat Nam che significa “vera identità”. Sat rappresenta tutto ciò che è vero, reale ed esistente pertanto nella sua accezione piú alta può esprimere il principio universale o l’essere supremo. La verità è un tema molto amato dai pensatori di tutti tempi, tanto che rappresenta un elemento chiave anche nella filosofia occidentale, abbracciando un'ampia gamma di significati che riguardano concetti e valori fondamentali quali la conoscenza, la realtà, l’onestà, l'equità, la purezza, la natura delle cose, il bene e la divinità. Dalle origini ai nostri giorni Il concetto di satya è già centrale nella letteratura vedica, esso costituisce l’essenza della realtà e senza di esso non può esistere nulla, a partire dai Veda il significato della parola si evolve, oltre a coincidere con l'essere supremo, ovvero il Brahaman, assume uno spiccato valore etico, divenendo una vera e propria virtù con la valenza di onestà e rettitudine. Nelle Upanishad, infatti, la verità viene espressa anche come giustizia superiore e rappresenta una forza che trionfa sempre sulla falsità, una qualità che conduce al benessere degli esseri viventi. Nello Yoga Sutra è più evidente l’importanza di tradurre satya in azione, la verità diviene una qualità che va coltivata e che deve riflettersi nel proprio comportamento al fine di cogliere i frutti e raggiungere la liberazione. Anche secondo il Buddismo la verità è un mezzo salvifico: le Quattro Nobili Verità conducono all'estinzione della sofferenza attraverso la conoscenza e l’azione, mentre nel Jainismo satya rappresenta il secondo dei 5 voti pronunciati dai monaci, in quanto ha il potere di eliminare la sofferenza, causata dalla menzogna generata dalle passioni. Il concetto di verità nel corso della storia si è esteso presto anche in ambito civile, essendo un elemento fondante anche per la costituzione delle leggi e coincidendo con i significati di onestà e giustizia. Nella prima metà del 1900 in India il Mahatma Gandhi elaborò il concetto di satyagraha, unendo i primi due Yama, satya (verità) e ahimsa (non-violenza), che si traduce nella resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza pacifica. La ricerca della verità aiuta a riconoscere ciò che è bene e a saper mettere da parte le proprie convinzioni nel caso siano errate, questo favorisce il dialogo e la risoluzione dei conflitti, è stato anche grazie all’applicazione di questo principio che l’India ha ottenuto l’indipendenza nel 1947. Il Sutra
Qui sotto riportiamo il passo tratto dallo Yoga Sūtra che parla di satya: 2.36 satyapratiṣṭhāyāṃ kriyāphalāśrayatvam Taduzione satya: veridicità pratiṣṭhāyāṃ: essendo fermamente stabiliti kriyā: azione phalā: risultato, frutto āśrayatvam: l’essere sostenuto da qualcosa Quando si è stabilmente fondati nel non dire falsità (satyapratiṣṭhā), vi è garanzia nel bilanciamento (āśrayatva) [della relazione valoriale] tra atti e frutti. [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015] Significato Chi agisce secondo il principio della verità con fermezza e convinzione vive in maniera retta e consapevole, ha cioè l’atteggiamento giusto che permette di realizzare le proprie intenzioni e assaporane i frutti. Satya nella vita Durante il nostro cammino satya dovrebbe sempre illuminare la nostra strada, tuttavia riconoscere la realtà delle cose può essere un processo difficile e a volte doloroso, poiché fattori come la paura, l’irrazionalità dei sentimenti e le pressioni sociali ostacolano la nostra ricerca. Incrementare la nostra sete di conoscenza è il primo passo verso la verità, spesso, infatti, vediamo le cose in maniera distorta, applichiamo dei filtri per edulcorare la realtà e preferiamo ignorare piuttosto che sapere, ma a lungo andare questo atteggiamento ci rende incompleti e infelici. Occorre invece andare in profondità per cogliere l’essenza: anche se all’inizio può costare un po’ di fatica in più, nel tempo verremo ripagati. La pratica di satya deve iniziare da noi stessi, occorre coltivare il dialogo interiore: è difficile fare progressi senza prima sapere da dove partiamo, riconoscere i sentimenti difficili e avere il coraggio di guardare le cose come stanno è fondamentale per acquisire maggiore consapevolezza. Cerchiamo di accettare anche le sfumature meno positive che riguardano la nostra vita, è normale attraversare dei periodi fatti di dubbi e incertezze, così come è normale provare sentimenti come rabbia, ansia e frustrazione, finché non riconosciamo cosa accade realmente dentro e fuori di noi, non potremo iniziare ad affrontare gli ostacoli che ci si pongono davanti né potremo elaborare le strategie per superarli. È importante eliminare le scuse e andare al cuore delle cose, questo vale per tutti gli aspetti della vita: ad esempio per migliorare la nostra forma fisica, è inutile zig-zagare da un nutrizionista all’altro, chiediamoci sinceramente se abbiamo rispettato il piano alimentare e il calendario dell'attività fisica con la giusta fermezza; se non riusciamo a mirare a un obbiettivo finanziario, invece di fare acquisti random, diamo uno sguardo alle nostre abitudini e risorse per poi stilare un piano d’azione realistico; se vogliamo migliorare le nostre relazioni, prima di avanzare richieste, dobbiamo essere sinceri e analizzare i nostri atteggiamenti. L'onestà deve partire dal pensiero, ma non deve fermarsi alle parole, bisogna che si rispecchi anche nelle azioni: "Qual è il mio vero scopo?” "Cosa mi impedisce di essere me stesso?” “Cosa posso fare?”, e ancora "Voglio davvero mettermi in gioco?” "Cosa sto facendo per me/l’atra persona?” "Quanto sono disposto a dare?" "Sto considerando le esigenze di tutte le parti?" "È la persona/cosa giusta per me?” porsi queste domande ci aiuterà a compiere le scelte giuste. Praticare la verità significa essere coerenti, mettendo in linea la nostra mente e i nostri gesti, cosicché il nostro stile di vita risulti genuino e orientato verso la rettitudine e la consapevolezza. Sincerità vuol dire anche saper dire “no": non sempre è facile pronunciare questa sillaba perché ci dispiace ferire gli altri o deludere gli standard sociali, così diventa una consuetudine inventare scuse, sviare la conversazione e non di rado mentire. A volte reclinare un invito, negare un favore che non possiamo concedere, non dare false speranze, non soddisfare una richiesta che va contro i nostri principi, non seguire una moda, dire di no al capriccio di nostro figlio, sarà più sincero e benefico, inoltre risparmierà parecchi malintesi, darà più tempo agli altri per organizzarsi e in diversi casi sarà persino educativo. Ci sono alcune eccezioni, però, ricordiamoci che satya va bilanciata con ahimsa, infatti, è sempre meglio associarla alla gentilezza e alla benevolenza, dire la verità a tutti i costi a volte è controproducente e può causare inutile sofferenza: solo perché qualcosa è vero, non significa che sia sempre appropriato farlo notare, se ciò che omettiamo non inficia l'onestà e il rispetto nei confronti dell’altro siamo autorizzati a rimanere in silenzio. Poniamoci sempre questi tre quesiti: "È vero?” "È gentile?" "È necessario?”, se le ultime due risposte sono negative per una volta possiamo tacere. Praticare satya significa vivere l’armonia naturale che si istaura tra il singolo e il mondo, occorre pertanto essere quanto più possibile onesti con sé stessi e con gli altri e per farlo è necessario esercitare il distacco, esso infatti ci aiuta a non formulare giudizi personali e a mantenere le nostre scelte lucide e imparziali. Satya è come una luce che rischiara il cammino, ci permette di procedere con sicurezza, senza rimpianti e rimorsi, il suo splendore incrementerà la conoscenza di noi stessi e il benessere di chi ci sta intorno, donandoci una vita più profonda e autentica. Leggi anche Oltre il tappetino c’è (molto) di più…Il primo approccio allo Yoga di solito avviene sul tappetino, tuttavia la conoscenza di questa disciplina rimane per molti abbastanza superficiale, ciò si rivela un impedimento per l’aspirante yogin che non riuscirà a progredire in maniera bilanciata e armonica nella pratica. Lo yoga va ben oltre alle posizioni instagrammabili che siamo abituati a vedere sui social, essendo costituito da alcuni principi filosofici di base che ne compongono l’ossatura e senza i quali non è possibile comprendere appieno i suoi insegnamenti. Letture yoga per iniziare: partire dalle basiVuoi scoprire cosa c’è oltre alle posizioni sul tappetino? Se ti stai approcciando per la prima volta allo Yoga o pratichi già da un po’ ma senti che ancora ti mancano le basi, qui di seguito troverai una piccola selezione di libri che ti aiuterà a prendere più dimestichezza con questa disciplina. Si tratta una rosa di testi che spaziano dalla pratica alla filosofia, chiari, scorrevoli e di facile comprensione, adatta a tutti, anche ai principianti, che contribuirà a far chiarezza e a fornire un primo nucleo di conoscenze necessario per entrare in contatto con il vasto sapere dello Yoga e iniziare, così, a praticare in maniera più consapevole. Testi consigliati |
STORIA Yoga di Giorgio Renato Franci, Il Mulino Prima di capire il fenomeno dello yoga moderno è necessario esaminare l’ambiente in cui è nato e la sua successiva evoluzione attraverso i secoli, senza queste premesse sarà difficile approfondire la conoscenza di questa antica disciplina. Questo libro, scritto dall’indologo e filosofo Giorgio Renato Franci, docente all’Università di Bologna, ripercorre il percorso dello Yoga dalle origini ai nostri giorni in maniera chiara e sintetica, si tratta infatti di un testo breve, che riuscirete a leggere senza troppi intoppi anche se non siete degli appassionati di storia e che vi fornirà le basi necessarie per proseguire nel vostro cammino yogico. |
FILOSOFIA Yoga Sutra di Patañjali, a cura di Leonardo Vittorio Arena, Bur Lo Yoga Sutra è il libro. Chi vuole intraprendere il percorso yogico non può non leggere questo testo, che rappresenta l’opera fondamentale della filosofia Yoga: gli aforismi che lo compongono sono una vera e propria guida per il praticante. Si tratta di una raccolta di sentenze che sino ad allora erano state tramandate oralmente da maestro a discepolo, piccole perle di saggezza dense di significato, che mirano dritte al cuore dello Yoga, illuminando il cammino del lettore. Resterete affascinati dal minimalismo dello yoga dei primordi, essenziale e scevro di tutti gli arricchimenti e degli orpelli delle epoche successive. Anche in questo caso si tratta di un testo breve, ve lo propongo in questa edizione molto snella ed efficace a cura di Leonardo Vittorio Arena, docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea all’Università di Urbino. |
PRATICA Asana Pranayama Mudra Bandha di Swami Satyananda Saraswati, Edizioni Satyananda Ashram Italia Un manuale molto completo, testo di riferimento per molti insegnanti Yoga, questo libro espone in maniera sistematica le principali pratiche dello Hatha Yoga, al suo interno troverete una trattazione esaustiva di asana, pranayama e tanto altro, con relative descrizioni, benefici, controindicazioni e diversi altri dettagli per ogni pratica, dalla più semplice alla più avanzata. Leggendolo vi accorgerete che alcune diciture si discostano un po' da quelle a cui siete abituati, ma non disperate, il succo rimane lo stesso, ogni scuola ha le sue preferenze in fatto di nomi. L’autore del libro è Swami Satyananda Saraswati, che fu discepolo di Sivananda Saraswati e ha fondato la famosa Bihar School of Yoga. |
MEDITAZIONE Come meditare. Guida pratica per fare amicizia con la propria mente di Pema Chödrön, Terra Nuova Edizioni Il libro "Come Meditare" di Pema Chödrön è una guida essenziale che espone i principali insegnamenti che stanno alla base della meditazione, dalla postura al respiro, raccolti in un testo dal linguaggio semplice e ironico, adatto a chiunque voglia intraprendere le pratiche meditative e sperimentarne i numerosi benefici. L’autrice, monaca buddhista e discepola di Chögyam Trungpa, uno dei più noti maestri di meditazione tibetana, ci invita a "fare amicizia" con la nostra mente attraverso la meditazione e a individuare le vere cause della nostra sofferenza per condurci a scoprire cos'è che davvero ci può fare stare bene. |
YOGA NELLA VITA Yoga della felicità di Sara Bigatti e John Kraijenbrink, Macro Scritto da Sara Bigatti, fondatrice del progetto La scimmia Yoga, nonché una delle più note e autorevoli insegnati di Yoga Italiane, e da John Kraijenbrink, insegnante di Yoga ed esperto in massaggio terapeutico, questo libro dà risposte semplici e pratiche ai problemi di tutti i giorni, attingendo dal vasto sapere yogico. Le pagine dalla grafica accattivante ti offriranno tante storie e insegnamenti da sfruttare per affrontare al meglio le piccole e grandi questioni che incontriamo nel nostro cammino, inoltre, ti verranno forniti suggerimenti utili e alcuni esercizi pratici per una vita più sana e felice in compagnia dello Yoga. Insomma un testo perfetto per i neofiti ma anche per tutti coloro che vogliano sperimentare una lettura piacevole e divertente per esplorare la quotidianità dal punto di vista dello Yoga! |
Buona lettura!
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Che cosa significa Ahiṃsā
Ahimsa è il primo dei cinque Yama, i principi morali dello Yoga, e si usa per esprimere il concetto di non-violenza, molto caro alla cultura indiana. Il termine ahiṃsā deriva dal sanscrito e significa "non nuocere", essendo composto da a privativa che si traduce con "non" e dal verbo han che vuol dire “uccidere". Si tratta di un concetto fondamentale nella filosofia Yoga che trascende il suo significato prettamente fisico e che può essere esteso ad ambiti assai diversi tra loro, la non-violenza, infatti, non riguarda solo la sofferenza inflitta al corpo ma anche quella psicologica e spirituale. Nei prossimi paragrafi esamineremo le varie sfaccettature di ahimsa e vedremo come sia possibile applicare un concetto così elevato alla vita reale.
Le origini
La prima definizione di ahimsa si trova nella Chāndogya Upaniṣad, tra i più antichi commentari vedici, se ne parla anche in altri testi della tradizione indiana tra cui figurano Mahābhārata, Bhagavadgītā e Purāṇa, ma è nello Yoga Sūtra di Patañjali che si delinea una sua prima definizione yogica, qui ahimsa viene inserita nel corpus degli Yama che assieme ai Niyama costituiscono rispettivamente i principi di etica sociale e personale dell'Ashtanga Yoga, il percorso di otto passi che lo yogin deve compiere lungo il suo cammino verso la liberazione.
Questo principio, dunque, trae le sue origini in India, dove ha permeato la cultura sia laica che religiosa, ed è a partire da qui che si è esteso al buddismo e al jainismo, nel quale trova la massima radicalizzazione. Ahimsa per i jainisti rappresenta il primo dei cinque giuramenti che i monaci devono sostenere, qui l’idea di non-violenza viene estesa non solo agli uomini ma a tutti gli esseri, tanto che gli osservanti stanno attenti a non calpestare insetti quando camminano o a ingerirli inavvertitamente, inoltre tutti i Jainisti compresi i laici praticano ahimsa nella quotidianità, sono, infatti, strettamente vegetariani, rinunciano a lavori che comportino la distruzione della vita e periodicamente si dedicano al perdono, riconciliandosi con familiari e conoscenti.
Il Sutra
Qui sotto riportiamo il passo tratto dallo Yoga Sūtra che parla di ahimsa:
2.35 ahiṃsāpratiṣṭhāyāṃ tatsannidhau vairatyāgaḥ
Traduzione
ahiṃsā: non nuocere
pratiṣṭhā: che è stabilmente
tat: suo
saṃnidhi: presenza
vaira: ostilità
tyāga: lasciar andare
In presenza di chi (tatsaṃnidhi) è stabilmente fondato nel non nuocere (ahiṃsāpratiṣṭhā), viene meno l’ostilità (vairatyāga). [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015]
Significato
Quando esercitiamo la non-violenza con fermezza e convinzione allontaniamo le ostilità, non solo perché in prima persona non manifestiamo atteggiamenti aggressivi ma anche perché con il nostro comportamento pacifico abbiamo il potere di influenzare positivamente gli altri.
2.35 ahiṃsāpratiṣṭhāyāṃ tatsannidhau vairatyāgaḥ
Traduzione
ahiṃsā: non nuocere
pratiṣṭhā: che è stabilmente
tat: suo
saṃnidhi: presenza
vaira: ostilità
tyāga: lasciar andare
In presenza di chi (tatsaṃnidhi) è stabilmente fondato nel non nuocere (ahiṃsāpratiṣṭhā), viene meno l’ostilità (vairatyāga). [F. Squarcini(a cura di), Patañjali, Yogasūtra, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015]
Significato
Quando esercitiamo la non-violenza con fermezza e convinzione allontaniamo le ostilità, non solo perché in prima persona non manifestiamo atteggiamenti aggressivi ma anche perché con il nostro comportamento pacifico abbiamo il potere di influenzare positivamente gli altri.
La non-violenza nella società moderna
Il principio della non-violenza non si è limitato rimanere relegato nella sfera filosofica e religiosa ma nel tempo si è esteso anche in ambito civile, valicando i confini del sub continente asiatico tanto da essere stato adottato da diverse grandi figure di rilevanza internazionale. Il più famoso è sicuramente il Mahatma Gandhi che ha introdotto il concetto di ahimsa nell'attivismo politico, rendendolo il baluardo pacifista della lotta per l’indipendenza dell’India dagli inglesi. Gandhi è stato il teorico di satyagraha, in cui ha unito i primi due principi morali degli Yama, cioè satya (verità) e ahimsa (non-violenza), ciò si traduce in pratica nella resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza pacifica.
Il dialogo e la resistenza non violenta di Gandhi sono stati un potentissimo strumento di persuasione che ha contribuito al processo di emancipazione del proprio paese senza l’impiego delle armi da parte dei tantissimi indiani che lo hanno seguito, portando l'India ad ottenere l’indipendenza nel 1947. Questo esempio mirabile di forza gentile ha generato una vera e propria rivoluzione politica e sociale che ha influenzato prima un intero popolo e ha poi ispirato molti altri uomini e donne della storia contemporanea, tra cui Martin Luther King, Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi e tantissime persone tra gli attivisti dei gruppi ecologisti e dei movimenti in difesa dei diritti civili della nostra epoca.
Ahimsa nella vita di tutti i giorni
Decidere di praticare ahimsa nella quotidianità può essere davvero utile per la nostra crescita personale, ci farà sentire più stabili e allo stesso tempo leggeri, liberi dalle ostilità, migliorando visibilmente la nostra vita e quella di chi ci sta intorno. Prima di introdurre ahimsa nelle nostre giornate occorre individuare tutti quegli atteggiamenti in cui tendiamo a manifestare aggressività e analizzare le cause di tali comportamenti, dietro di essi, infatti, si celano quasi sempre sentimenti di paura e insoddisfazione. Una volta che abbiamo compreso ciò che agita il nostro animo, possiamo iniziare a praticare la non-violenza in maniera più consapevole.
Il primo passo è promuovere atteggiamenti opposti a quelli che implicano violenza. Coltivare sentimenti positivi come la gentilezza, l'imparzialità, il coraggio e l'empatia, rappresenta il cardine della pratica di ahimsa, che apporterà nella nostra vita un maggiore senso di connessione e di equilibrio. Ciò significa prima di tutto attuare la non-violenza nei nostri confronti: essere compassionevoli e liberi dai giudizi verso noi stessi ci aiuterà ad essere più tolleranti ed empatici anche verso gli altri.
Il primo passo è promuovere atteggiamenti opposti a quelli che implicano violenza. Coltivare sentimenti positivi come la gentilezza, l'imparzialità, il coraggio e l'empatia, rappresenta il cardine della pratica di ahimsa, che apporterà nella nostra vita un maggiore senso di connessione e di equilibrio. Ciò significa prima di tutto attuare la non-violenza nei nostri confronti: essere compassionevoli e liberi dai giudizi verso noi stessi ci aiuterà ad essere più tolleranti ed empatici anche verso gli altri.
Il passo successivo è trasformare questi sentimenti positivi in piccole azioni: proviamo ad esprimerci con parole cordiali anche in situazioni avverse e cerchiamo di ridurre il nostro impatto negativo nel mondo. Ad esempio, possiamo portare più consapevolezza nei nostri discorsi, evitando pettegolezzi e commenti gratuiti, trattare gli altri con più rispetto e cortesia, incremetare la tolleranza e il senso civico, o ancora possiamo fare scelte amiche dell’ambiente, riducendo la nostra impronta ecologica e adottando una dieta che arrechi meno sofferenza possibile, come quella a base vegetale.
Una chiave di volta per sviluppare correttamente ahimsa è affiancarla a satya, ovvero ricercare la verità, avere cioè onestà intellettuale, e di intenti, che si traduce nel riconoscere di non avere ragione a tutti costi e in una maggiore apertura mentale verso l'altro e il diverso. Questo sarà sicuramente più semplice se impariamo a lasciar andare: mollare un po' la presa su beni materiali, persone o errate convinzioni, ci farà capire che non sempre vale la pena di reagire in maniera emotiva e che esistono strumenti più illuminanti della prevaricazione.
Seguendo questi principi alla fine saremo in grado di batterci per valori davvero fondanti in maniera equilibrata e pacifica, con coraggio e determinazione. Praticare ahimsa ci aiuterà a placare la rabbia e a ritrovare la pace interiore, avrà un impatto positivo sul nostro benessere fisico e mentale e su quello di chi ci sta intorno, ci sentiremo sollevati da inutili ostilità, raggiungeremo in nostri obiettivi con piena soddisfazione, senza sensi di colpa, infine inizieremo a vivere una vita più significativa e serena.
Seguendo questi principi alla fine saremo in grado di batterci per valori davvero fondanti in maniera equilibrata e pacifica, con coraggio e determinazione. Praticare ahimsa ci aiuterà a placare la rabbia e a ritrovare la pace interiore, avrà un impatto positivo sul nostro benessere fisico e mentale e su quello di chi ci sta intorno, ci sentiremo sollevati da inutili ostilità, raggiungeremo in nostri obiettivi con piena soddisfazione, senza sensi di colpa, infine inizieremo a vivere una vita più significativa e serena.
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Che cosa significa Sankalpa
Nel mondo frenetico in cui viviamo è facile smarrirsi, travolti dalla routine quotidiana e sommersi dagli input esterni, perdiamo di vista le cose davvero importanti, abbiamo come la sensazione di essere disconnessi dal nostro vero sé e dalle nostre passioni. Il sankalpa offre un potente antidoto a questo senso di smarrimento, spingendoci a focalizzarci su ciò che conta veramente e ad assumere un ruolo attivo nella realizzazione della nostra vita.
Sankalpa si riferisce ad una pratica molto apprezzata nello yoga che può rivelarsi uno strumento importante per innescare cambiamenti positivi. La parola sankalpa si traduce come “intento” o “proposito”, in sanscrito kalpa significa precetto/regola mentre san vuol dire desiderare/ottenere, e si riferisce all'atto di stabilire un'intenzione o una direzione per la propria vita, dandole priorità su tutto e armonizzando le azioni che compiamo ogni giorno con i propri valori e desideri.
Sankalpa si riferisce ad una pratica molto apprezzata nello yoga che può rivelarsi uno strumento importante per innescare cambiamenti positivi. La parola sankalpa si traduce come “intento” o “proposito”, in sanscrito kalpa significa precetto/regola mentre san vuol dire desiderare/ottenere, e si riferisce all'atto di stabilire un'intenzione o una direzione per la propria vita, dandole priorità su tutto e armonizzando le azioni che compiamo ogni giorno con i propri valori e desideri.
In un primo momento potremmo scambiare il sankalpa per ciò che comunemente chiamiamo obiettivi, ma si tratta di un qualcosa di completamente diverso, nato in un substrato molto più profondo, pertanto scevro dalle ingerenze esterne e dai condizionamenti sociali che contraddistinguono molti dei traguardi che ci imponiamo e che anziché arricchire la nostra vita non fanno altro che svuotarla e renderla priva di compiutezza.
Il sankalpa non ha a che fare con il successo materiale, semmai con quello spirituale, esso, infatti, ci aiuta a trovare ciò che veramente può farci progredire e che può riempire di significato la nostra vita. Questo non significa che non possiamo desiderare dei beni tangibili, anch'essi possono rappresentare il soggetto di un sankalpa a patto che portino a una crescita positiva in grado di far emergere il meglio di noi e di chi ci sta intorno.
Il sankalpa non ha a che fare con il successo materiale, semmai con quello spirituale, esso, infatti, ci aiuta a trovare ciò che veramente può farci progredire e che può riempire di significato la nostra vita. Questo non significa che non possiamo desiderare dei beni tangibili, anch'essi possono rappresentare il soggetto di un sankalpa a patto che portino a una crescita positiva in grado di far emergere il meglio di noi e di chi ci sta intorno.
La pratica del Sankalpa
La pratica del sankalpa è spesso inserita nelle sessioni di yoga e meditazione, poiché rappresenta uno strumento utile per approfondire la conoscenza di noi stessi, essa consiste nella formulazione di una parola o di una breve frase che racchiuda un’intenzione positiva che vogliamo introdurre nella nostra vita.
Formulare un Sankalpa è come piantare un seme affinché cresca qualcosa di bello, abbeverandolo con regolarità darà origine a una pianta rigogliosa e forte. L’intenzione rappresenta l’innesco che permette di evolverci, il motore dietro ad ogni azione, la nostra stessa vita è composta dal susseguirsi degli atti che compiamo ogni giorno, alla cui base c’è sempre un desiderio, dunque, possiamo dire che noi stessi siamo fatti di desideri. A tal proposito si esprime questo bellissimo passo tratto dalle Upanishad che recita "In verità si dice anche che l'uomo è fatto di desiderio: ma quale è il desiderio, tale è la volontà, quale è la volontà, tale è l'azione, quale è l'azione, tale è il risultato che consegue”
Il Sankalpa è, dunque, un modo per comprendere noi stessi e per capire cosa desideriamo davvero, sviluppando un determinato proposito attraverso l'azione e dando un senso alla nostra vita. La pratica del Sankalpa ci permette di mantenere sempre alta l’attenzione verso l'intenzione, come quando ravviviamo la fiammella di un focolare, aiutandoci a portare a termine i nostri compiti e a raggiungere le mete che ci siamo prefissati. Quindi, se ti senti smarrito o disconnesso, prenditi del tempo per riflettere sui tuoi desideri più profondi, stabilisci un sankalpa per te stesso e impegnati a vivere secondo la tua intenzione.
Come formulare il tuo sankalpa
Per identificare il sankalpa si può iniziare con un esercizio di visualizzazione che ci aiuti a individuare i nostri desideri, le aspirazioni e i valori più profondi. Immagina una sfera di luce dorata nel tuo cuore e chiediti cosa potrebbe renderla più luminosa, cosa potrebbe farla espandere. A questo punto lascia che da lì emergano spontaneamente le intenzioni e i propositi, poi scegli quello più luminoso e vicino al tuo essere autentico. L’intenzione che sceglierai deve essere pura, cioè quella quanto più possibile libera da sovrastrutture, influenze esterne e aspettative. Non avere timore, iI sankalpa deve essere solo tuo.
Una volta identificato il tuo sankalpa, occorre trovare la giusta formula, dal momento in cui viene enunciato il sankalpa non dovrà più essere modificato né essere rivelato ad alcuno. Per esprimere la nostra intenzione è preferibile usare parole chiare e positive, coniugare il tempo al presente, prediligere frasi brevi e che possibilmente non contengano negazioni, ad esempio meglio affermare “sono forte” piuttosto che “non sono debole”. Il passo successivo è ripetere il nostro sankalpa in maniera costante e integrarlo nella tua vita quotidiana con delle azioni anche minime ma che abbiano una continuità.
Per mantenersi focalizzati verso la meta bisogna ripetere la propria intenzione più volte durante il giorno, un buon esercizio è visualizzare se stessi mentre si sta vivendo secondo i propri valori e impegnarsi a compiere piccole azioni concrete verso il raggiungimento dell'obiettivo. Se stai puntando a un grande proposito o a un cambiamento impegnativo, non riempire le tue pratiche di mille intenzioni diverse, meglio sceglierne una con cura e concentrarsi solo su quella, sarà molto più probabile vederne gli effetti.
Una volta identificato il tuo sankalpa, occorre trovare la giusta formula, dal momento in cui viene enunciato il sankalpa non dovrà più essere modificato né essere rivelato ad alcuno. Per esprimere la nostra intenzione è preferibile usare parole chiare e positive, coniugare il tempo al presente, prediligere frasi brevi e che possibilmente non contengano negazioni, ad esempio meglio affermare “sono forte” piuttosto che “non sono debole”. Il passo successivo è ripetere il nostro sankalpa in maniera costante e integrarlo nella tua vita quotidiana con delle azioni anche minime ma che abbiano una continuità.
Per mantenersi focalizzati verso la meta bisogna ripetere la propria intenzione più volte durante il giorno, un buon esercizio è visualizzare se stessi mentre si sta vivendo secondo i propri valori e impegnarsi a compiere piccole azioni concrete verso il raggiungimento dell'obiettivo. Se stai puntando a un grande proposito o a un cambiamento impegnativo, non riempire le tue pratiche di mille intenzioni diverse, meglio sceglierne una con cura e concentrarsi solo su quella, sarà molto più probabile vederne gli effetti.
Ecco alcuni esempi generici da cui prendere spunto, ma si possono creare dei sankalpa molto più specifici e orientati in base alle proprie esigenze
- oggi mi sento bene
- amo il mio corpo
- sono forte
- sono audace
- onoro la natura e tutti gli esseri viventi
- risveglio il mio potenziale
- merito amore
- mattone dopo mattone
- un passo alla volta arrivo lontano
- sono un essere libero e consapevole
- desidero con tutto il mio cuore ...
- con le mie azioni costruisco il mio destino
Il potere delle intenzioni
Può sembrare incredibile come una piccola frase o una parola possano racchiudere tanta potenza, eppure non si tratta di magia, il potere del sankalpa risiede nella capacità persuasiva della suggestione, ampiamente adoperata anche in psicologia, e nel rafforzamento dell'intenzione che si attua tramite la ripetizione: questi elementi sono in grado di guidarci, incitarci e di farci rimanere concentrati su ciò che conta davvero, aiutandoci a superare sfide anche molto difficili.
Per questo non devi mai dubitare del tuo sankalpa: mantieni la sua segretezza in maniera assoluta e fallo risuonare con fermezza e consapevolezza dentro di te ogni volta che puoi o ne senti il bisogno. La nostra intenzione ci sosterrà e sarà sempre al nostro fianco, quando ci ritroveremo a fronteggiare ostacoli o battute d'arresto, il nostro sankalpa ci ricorderà i valori in cui crediamo e le nostre aspirazioni più profonde, aiutandoci a mantenere alta la motivazione e a proseguire il nostro cammino.
Il momento ideale dove inserire il nostro sankalpa è durante la pratica della meditazione, in particolare Yoga Nidra, ma è perfetto anche all’inizio e alla fine di una sessione di yoga o semplicemente al mattino prima di iniziare la giornata o alla sera prima di dormire, in ogni caso richiama la tua intenzione ogni qual volta ne sentissi il bisogno, con l’esercizio e la dedizione potresti rimanere sorpreso dei cambiamenti positivi che sei stato in grado di introdurre nella tua vita, potresti accorgerti di aver raggiunto risultati più appaganti e di condurre un'esistenza più piena e soddisfacente.
Per questo non devi mai dubitare del tuo sankalpa: mantieni la sua segretezza in maniera assoluta e fallo risuonare con fermezza e consapevolezza dentro di te ogni volta che puoi o ne senti il bisogno. La nostra intenzione ci sosterrà e sarà sempre al nostro fianco, quando ci ritroveremo a fronteggiare ostacoli o battute d'arresto, il nostro sankalpa ci ricorderà i valori in cui crediamo e le nostre aspirazioni più profonde, aiutandoci a mantenere alta la motivazione e a proseguire il nostro cammino.
Il momento ideale dove inserire il nostro sankalpa è durante la pratica della meditazione, in particolare Yoga Nidra, ma è perfetto anche all’inizio e alla fine di una sessione di yoga o semplicemente al mattino prima di iniziare la giornata o alla sera prima di dormire, in ogni caso richiama la tua intenzione ogni qual volta ne sentissi il bisogno, con l’esercizio e la dedizione potresti rimanere sorpreso dei cambiamenti positivi che sei stato in grado di introdurre nella tua vita, potresti accorgerti di aver raggiunto risultati più appaganti e di condurre un'esistenza più piena e soddisfacente.
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Che cos'è il Diwali
Diwali, Deepawali o Dipavali significa fila (avali) di lampade (deep) e designa la Festa delle Luci, una delle più amate dell’intera India, diffusa anche in diversi altri paesi con presenza induista, giainista e sikh, come Indonesia, Malesia, Mauritius e Nepal. Non esiste una data fissa per questa ricorrenza, dal momento che viene celebrata ogni anno in un periodo differente a seconda delle fasi lunari, per la precisione nel quindicesimo giorno del mese di Kartika, che cade sempre tra Ottobre e Novembre. La festa dura 5 giorni, dei quali il più importante coincide con la notte più buia, segnando l’inizio della nuova fase lunare.
Per la sua importanza il Diwali viene spesso paragonato al Natale, proprio come quest’ultimo anch’esso prevede grandi festeggiamenti e racconta una particolare vicenda della tradizione religiosa, celebra, infatti, la storia di Rama, avatar del dio Vishnu, che ritorna nella città natale dopo 14 anni di esilio. Egli nella sua ultima impresa aveva salvato dal demone Ravana la moglie Sita, avatar della dea Lakshmi, così al loro rientro il popolo pensò di accoglierli rischiarando il loro cammino con file di lumini e decise di adornare le vie e le case della città con fiori e decori per onorarli solennemente.
Significato del Diwali
Il Diwali è una festa molto suggestiva, ricca di tradizioni e rituali, a volte un po’ esuberante nelle sue manifestazioni, tuttavia sotto l’aspetto più esteriore e materiale racchiude un significato molto profondo e potente. Il Diwali, infatti, come si intuisce già dallo stesso nome, rappresenta la luce che illumina l’oscurità, il trionfo del bene sul male e simboleggia il lume della conoscenza che sconfigge le tenebre dell’ignoranza. Tuttavia il suo significato più intimo è quello spirituale.
Le luci che rischiarano la strada del ritorno di Rama, danno forza e sicurezza per andare avanti nell’oscurità della notte. Illuminare il cammino verso casa vuol dire non solo superare gli ostacoli della vita ma soprattutto ritrovare se stessi. In particolare diventa la metafora del cammino spirituale della persona, simboleggia la ricerca della propria luce interiore. Il Diwali è senza dubbio una celebrazione della vita, contrapposta al buio della morte, ed è strettamente legato al culto di Lakshmi, la dea della prosperità, della saggezza e del destino. |
I cinque giorni del Diwali
• Dhanteras (o Dhanatrayodashi) è la pima giornata di festa, dhan significa benessere e teras tredicesimo giorno, infatti, coincide con il tredicesimo giorno dalla Poornima (luna piena), lo stesso in cui la dea Lakhsmi nacque dalle acque dell’oceano. Secondo la tradizione la mattina occorre effettuare una profonda pulizia della casa, poiché si celebra Lakshmi, dea della ricchezza e dell’abbondanza, che non ama particolarmente i pigri e la sporcizia.
In questo giorno si acquistano oro, gioielli e oggetti di metallo, in special modo pentole e utensili da cucina, ci si riunisce per giocare a carte, qualcuno anche per giocare d’azzardo. È una data molto importante anche per l’Ayurveda, dal momento che si onora Dhanvantari, incarnazione di Vishnu, colui che ha fatto conoscere agli umani la medicina ayurvedica. |
• Chhoti Diwali (o Narak Chaturdashi) è anche definito piccolo Diwali, infatti ne è la viglilia. Si narra che in questo giorno Hanuman abbia annunciato al popolo il ritorno in città di Rama, Sita e Lakshmana e che i cittadini in gran subbuglio si prepararono ad accogliere i vincitori adornando la città di luci e decori. È proprio per questo che si addobba la casa con le diya, piccole lampade ad olio, candele e fiori, dinnanzi alle porte si realizzano i rangoli, disegni geometrici tracciati con farine colorate, mentre fuori si fanno esplodere i botti. L’usanza prevede di disporre l’immagine di Lakshmi o di Ganesha all’interno di piccolissime casette per poi onorarle durante il puja, il rituale sacro.
Si crede anche che in questo giorno Kali e Krishna abbiano ucciso il demone Narakasura, per tale motivo in alcune località si festeggia bruciando le effigi dei demoni. Durante il Chhoti Diwali è irrinunciabile preparare o acquistare laddoo, burfi e gli altri squisiti dolcetti della tradizione indiana per poi condividerli con familiari, amici e conoscenti. |
• Diwali (o Lakshmi Puja) è il terzo giorno e il più importante di tutte la festività, viene celebrato durante il novilunio, ovvero il giorno più buio del mese. In questa ricorrenza si ricorda il ritorno di Rama nella sua città natale con la moglie Sita dopo che fu salvata dal demone e i grandi festeggiamenti a loro rivolti, ma la protagonista indiscussa del Diwali è senza dubbio la dea Lakshmi, di cui Sita è l’avatar.
• Diwali (o Lakshmi Puja) è il terzo giorno e il più importante di tutte la festività, viene celebrato durante il novilunio, ovvero il giorno più buio del mese. In questa ricorrenza si ricorda il ritorno di Rama nella sua città natale con la moglie Sita dopo che fu salvata dal demone e i grandi festeggiamenti a loro rivolti, ma la protagonista indiscussa del Diwali è senza dubbio la dea Lakshmi, di cui Sita è l’avatar.
Si crede che la divinità visiti prima le abitazioni più pulite e luminose, portandovi prosperità e ricchezza, per tale motivo tutta la casa deve essere perfettamente in ordine e illuminata a festa, inoltre bisogna venerare la dea con uno speciale puja serale. In alcune località per tradizione anche la dea Kali viene celebrata con il rituale del Kali Puja.
Durante il Diwali è usanza indossare gli abiti nuovi, spesso acquistati per l’occasione nei giorni precedenti, per poi riunirsi tra amici e familiari, scambiarsi gli auguri e condividere cibo e regali. Al calar della sera si esce fuori nelle strade o si sale sulle terrazze ad ammirare i fuochi d’artificio che rischiarano il cielo notturno. È un momento di grande gioia e partecipazione. |
• Balipratipada (Padiwa o Goverdhan Puja) rappresenta l’inizio della nuova fase lunare, con la luna che cresce luminosa durante le successive due settimane di Kartik. La puja della giornata è in onore del dio Krishna: si narra che in questo giorno Krishna sconfisse Indra, mentre Vishnu uccise il demone Bali.
Alcuni celebrano il Balipratipada proprio come l’inizio del nuovo anno, si fa festa e si donano regalini soprattutto ai più piccoli. Per molti questo giorno è dedicato all’amore, una sorta di San Valentino indiano, gli innamorati si scambiano doni e si realizzano banchetti in onore delle coppie appena sposate. |
• Bhai Dooj (o Bhaiya Dooj) è l’ultimo giorno della festa dedicato alla celebrazione del legame con le sorelle. Durante il quinto giorno, infatti, è tradizione riunirsi tra fratelli per condividere la stessa mensa e trascorrere del tempo insieme: le sorelle pongono un tilak rosso sulla fronte dei fratelli in segno di buon auspicio, protezione e affetto, mentre i fratelli ricambiano il gesto con dei regali e delle benedizioni. È il momento migliore per mettere da parte eventuali discussioni e vecchi rancori e celebrare l’unione tra fratelli.
Image by srijankundu, kalyan02, sporadic, magiceye, KnaPix, spurekar, Chetan Bisariya, jopetsy, VikramDeep, vhines200,
Per sconfiggere le tue ombre accoglile,
poiché è nel buio che la luce risplende
Happy Diwali!
poiché è nel buio che la luce risplende
Happy Diwali!
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Che cos'è il Samādhi?Samādhi significa unire, fondere, letteralmente mettere (dha) insieme (saṃ), rappresenta l'ultimo stadio degli otto passi dello Yoga e indica lo stato di enstasi a cui si può accedere tramite Dhyana, la meditazione.
Gli ultimi quattro passi rappresentano una serie di livelli contigui in stretta connessione tra loro: si procede da Prathyahara (il ritiro dei sensi) verso Dharana (la concentrazione) e Dhyana (la meditazione) sino a giungere al Samadhi (lo stato di unione). |
Questo procedere interconnesso verso lo stato di unione è come un fiume che salta in cascata per confluire in uno specchio d'acqua pura, dove ogni singola goccia si congiunge in un lago di pace e consapevolezza.
Il significato di enstasi
Enstasi è un termine relativamente recente, coniato per la prima volta dal grande orientalista e storico delle religioni Mircea Eliade, proprio per indicare lo stato che si sperimenta durante il Samadhi. Nel terzo libro degli Yoga Sūtra di Patañjali esso viene definito come la condizione di unione totale, "quando nient'altro che l'oggetto rifulge in quell'assorbimento meditativo e quando la mente è per così dire vuota della sua forma propria". A prima lettura potrebbe sembrare qualcosa di complesso e mistico, ma nelle prossime righe cercheremo di capire meglio questo concetto e di renderlo più familiare.
In sintesi l'enstasi è lo stato di unione con l'oggetto della meditazione, quando, cioè, dopo esserci focalizzati stabilmente su qualcosa, distaccandoci da tutti i pensieri e dagli stimoli esterni, anche la nostra identità personale svanisce per lasciare spazio a questa fusione tra oggetto e soggetto meditante.
A differenza della più nota e-stasi, che indica l'essere fuori di sè, ovvero le esperienze di evasione dalla realtà e di rapimento mistico, l'en-stasi descrive lo stare in se stessi, definisce, perciò, il raccoglimento spirituale, il viaggio verso l'interno e rappresenta una profonda esperienza interiore, che non rifugge la realtà ma la contempla. Sperimentandola facciamo un tuffo dentro la natura più intima delle cose, ci immergiamo nella loro essenza sino a fonderci con essa.
A tal proposito il maestro Iyengar afferma che questo stato "[...] è l'attimo in cui l'oggetto si dissolve nel soggetto e il soggetto dimentica se stesso", nel Samadhi, infatti, pur abbandonando tutte le sovrastrutture e persino la nostra identità, in qualche modo rimaniamo sempre consci e consapevoli. Ed è nel Samadhi che possiamo essere totalmente liberi, spogliandoci sino all'essenza, laddove la ricettività diventa massima e c'è più spazio per la consapevolezza e la conoscenza profonda delle cose, in un certo senso si ritorna al seme e poi oltre, quando tutto è potenza, unione, possibilità di divenire.
In sintesi l'enstasi è lo stato di unione con l'oggetto della meditazione, quando, cioè, dopo esserci focalizzati stabilmente su qualcosa, distaccandoci da tutti i pensieri e dagli stimoli esterni, anche la nostra identità personale svanisce per lasciare spazio a questa fusione tra oggetto e soggetto meditante.
A differenza della più nota e-stasi, che indica l'essere fuori di sè, ovvero le esperienze di evasione dalla realtà e di rapimento mistico, l'en-stasi descrive lo stare in se stessi, definisce, perciò, il raccoglimento spirituale, il viaggio verso l'interno e rappresenta una profonda esperienza interiore, che non rifugge la realtà ma la contempla. Sperimentandola facciamo un tuffo dentro la natura più intima delle cose, ci immergiamo nella loro essenza sino a fonderci con essa.
A tal proposito il maestro Iyengar afferma che questo stato "[...] è l'attimo in cui l'oggetto si dissolve nel soggetto e il soggetto dimentica se stesso", nel Samadhi, infatti, pur abbandonando tutte le sovrastrutture e persino la nostra identità, in qualche modo rimaniamo sempre consci e consapevoli. Ed è nel Samadhi che possiamo essere totalmente liberi, spogliandoci sino all'essenza, laddove la ricettività diventa massima e c'è più spazio per la consapevolezza e la conoscenza profonda delle cose, in un certo senso si ritorna al seme e poi oltre, quando tutto è potenza, unione, possibilità di divenire.
Come raggiungere il Samādhi
Spesso abbiamo grandi aspettative su quest'ultimo gradino dello Yoga, siamo presi dalla foga di conquistarlo e per questo proviamo a forzare il processo, a stabilire delle regole, in modo da rendere l'esperienza sempre ripetibile, ma seguire questa strada risulta per lo più controproducente allo scopo, venendo meno la sua essenziale naturalezza.
Ciò non vuol dire che non possiamo fare nulla per raggiungere il tanto agognato stato di unione, si tratta, infatti, di un meccanismo spontaneo, che accade, però, solo nel momento in cui si instaurano i presupposti perché avvenga.
Esiste, dunque, una strada maestra per avviarci al traguardo, e questa via consiste proprio nel creare le giuste premesse. Un ottimo metodo per soddisfare tali premesse si realizza percorrendo tutti gli otto passi dello Yoga, imparando ad abbandonarci nella quiete, a sostare nella concentrazione e a meditare con costanza, prima o poi sperimenteremo questo stato in maniera del tutto naturale.
Ciò non vuol dire che non possiamo fare nulla per raggiungere il tanto agognato stato di unione, si tratta, infatti, di un meccanismo spontaneo, che accade, però, solo nel momento in cui si instaurano i presupposti perché avvenga.
Esiste, dunque, una strada maestra per avviarci al traguardo, e questa via consiste proprio nel creare le giuste premesse. Un ottimo metodo per soddisfare tali premesse si realizza percorrendo tutti gli otto passi dello Yoga, imparando ad abbandonarci nella quiete, a sostare nella concentrazione e a meditare con costanza, prima o poi sperimenteremo questo stato in maniera del tutto naturale.
Dhāraṇā è il sesto degli otto passi dello Yoga e indica lo stato di concentrazione che precede la meditazione. ovvero la capacità di focalizzare l'attenzione in un'unica direzione a nostra discrezione. Il termine deriva dalla radice sanscrita dhr che significa "tenere stretto" e definisce proprio l'azione del mantenere il focus fisso su qualcosa, che può essere un particolare punto, una regione dello spazio o un segmento di pensiero sulla quale vogliamo dimorare. Dhāraṇā descrive, dunque, l'atto del soffermarsi sull'oggetto fisico o immateriale della nostra meditazione: Dhāraṇā è l'attenzione focalizzata.
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Spesso si crea un po' di confusione tra Dhāraṇā e Dhyana, che sono dei livelli strettamente contigui, ma differenti: mentre il primo indica l'atto del concentrarsi, nel secondo caso stiamo parlando della vera e propria meditazione. Dhāraṇā è il momento in cui incanaliamo la mente verso il punto prescelto, l'attimo in cui stabiliamo il primo contatto con l'oggetto della meditazione, escludendo tutto il resto dalla nostra attenzione, grazie anche allo stabilirsi del precedente stato di Pratyahara, il ritiro dei sensi.
La concentrazione, infatti, non è un blocco uniforme, piuttosto uno sfumare di intensità, un crescendo di piccoli equilibri che ha inizio nel momento in cui portiamo la mente ad applicarsi su qualcosa, prosegue con il tentativo di allontanare tutti gli elementi che disturbano l'attenzione, come pensieri e stimoli ambientali, e finisce nell'istante in cui la concentrazione è massima e non subisce distrazioni, creando a questo punto le premesse per lo stadio successivo. Infatti, quando la concentrazione è ormai stabile e perdura senza più vacillare subentra automaticamente Dhyana, la meditazione, un flusso ininterrotto di consapevolezza.
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Rosa BeltramiFounder di Wonderflow Yoga, ha una laurea in comunicazione visiva, ama follemente il suo pianeta e, ovviamente, lo Yoga! |